lunedì 9 dicembre 2013

Il silenzio delle sirene- Federica Chisalè.


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FEDERICA CHISALÉ, NICOLA BUCCI




IL SILENZIO DELLE SIRENE

PER UNA CRITICA
DELL’ATTO DI CREAZIONE






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EDIZIONI MASNATA

GENOVA







SOMMARIO






Federica Chisalé
Macchine da ispirazione p. 7

Nicola Bucci
Immagini della fatticità p. 35


Colpire il tipo di attività... p. 93




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© Edizioni Masnata - Genova, 1995.
Tutti i diritti riservati.





A GAETANO SABATINO





Pour soulever un poids si lourd,
Sisiphe, il faudrait ton courage!
Bien qu’on ait du coeur à l’ouvrage,
L’Art est long et le temps est court.

Charles Baudelaire (Les fleurs du mal, 1857)







MACCHINE DA ISPIRAZIONE

Federica Chisalé


1. Inciampando nel cortile dei Guermantes sul selciato sconnesso, nel tentativo di sottrarsi a un’automobile che stava per investirlo, il narratore della Recherche, s’imbatte, come egli stesso dice, “in un frammento di tempo allo stato puro”1, tutte le sensazioni connesse ad uno stesso essere stato in bilico tra due ciottoli: “un azzurro profondo... impressioni di freschezza, d’abbagliante luce”2, l’immagine integrale di Venezia, fino ad allora resistente (sorda) ad ogni tentativo di evocazione, questo “già stato”, ora, nella sua intensità reale, è presente: un’impressione così disorientante da fargli dubitare, per un attimo, in che momento del tempo si trovasse (come un’“interferenza”, dice, fra il passato e il presente)3. Questo incidente (o serie di incidenti) provoca in lui (nel narratore) un’inaudita impressione di felicità, oltre che la certezza, finalmente, di poter porre mano all’opera della sua vita (l’opera d’arte che si apprestava ormai ad iniziare), dissipa in lui ogni dubbio sopra la consistenza della sue doti letterarie e della stessa letteratura, lo mette in uno stato che, poco prima, sembrava affatto impossibile.
Perché tutti gli sforzi fatti fino allora per evocare dal profondo del tempo un’immagine che fosse bella, tanto da esigere di essere fermata (di essere vera), erano stati vani. (Per questo si trovava così in pensiero, da farsi quasi “investire”).

E quasi subito la ravvisai: era Venezia, di cui nulla mi avevano mai detto i miei sforzi per descriverla e le pretese istantanee della mia memoria (e che la sensazione da me provata, un giorno, su due lastre diseguali del battistero di San Marco, mi aveva restituito, insieme a tutte le altre sensazioni connesse a lei in quel giorno, e rimaste in attesa, al loro posto, nella schiera dei giorni dimenticati, donde d’improvviso il caso le aveva tratte imperiosamente4).

Le immagini di Venezia che il narratore ha sempre a sua disposizione e, in generale, tutte le immagini del passato che egli può richiamare alla mente quando vuole, sono spettrali (eidola). È la coscienza che ha inferto loro la ferita, da cui il sangue e la vita insieme si sono involati. Niente di meno infatti che la cancellazione della traccia che l’impressione viva del presente — la “sensazione del presente” — lascia nella memoria (il livido, il segno del trauma) è l’atto della presa di coscienza che la traduce in ricordo (come l’ossigeno “brucia” la vita brulicante nella ferita).
Ma questa traccia serbava intatta la potenza di un’esperienza integrale (singolare, differenziata, irripetibile), laddove invece il ricordo — neutralizzata l’impressione che lo animava — ha più soltanto ormai la consistenza di un fantasma.

Sull’enorme divario tra l’impressione reale che abbiamo avuta di una cosa e l’impressione fattizia che ce ne formiamo, allorché tentiamo volutamente di rappresentarcela, non mi soffermai: ricordando molto bene con quale relativa indifferenza Swann aveva potuto parlare dei giorni in cui era amato, perché sotto questa frase egli scorgeva qualcosa di diverso da essi, e il subitaneo dolore che gli aveva causato invece la piccola frase di Vinteuil restituendogli quei giorni stessi, quali li aveva allora vissuti, comprendevo chiaramente che ciò che la sensazione del lastricato ineguale... aveva (...) risvegliato in me non aveva nessun rapporto con quanto cercavo spesso di ricordare di Venezia... col solo aiuto di una memoria uniforme; e capivo come la vita possa essere giudicata mediocre, anche se in certi momenti sia apparsa così bella, perché la si giudica (e deprezza) in base a tutt’altra cosa che lei stessa, a immagini che di lei nulla conservano5.

La neutralizzazione delle impressioni avviene come “presa di coscienza”. La coscienza capta gli stimoli, li “para” (come uno scudo levato contro una pioggia di frecce) e li “registra” (questi proietti resi inoffensivi), per poi dimenticarli nel polveroso archivio della memoria, dalle cui stanze possiamo trarli (è vero) a piacimento, senza trovarvi mai però la vita, di cui pure, lo sappiamo, erano fatti. (Tra questa specie di ricordi e la vita che era, si instaura una terribile somiglianza, paragonabile addirittura a quella che ci ossessiona quando affannosamente andiamo in cerca dei tratti familiari della persona cara nella “maschera di cera” del suo cadavere).

Col mero ausilio delle pallottole “spuntate” dall’impatto con la superficie della coscienza è naturale che il narratore “non si senta” di aggredire il ricordo di Combray, della sua infanzia (tutto ciò che rimane di Combray oltre all’angoscia — e questa sola sì indelebilmente impressa — connessa all’ora e al rito di “andare a letto”).

A dire il vero, a chi m’avesse interrogato avrei potuto rispondere che Combray racchiudeva anche altre cose ed esisteva in altre ore. Ma poiché quel che avrei ricordato mi sarebbe stato offerto soltanto dalla memoria volontaria, la memoria dell’intelligenza, e poiché le notizie che essa dà sul passato non ne serbano nulla, non avrei avuto voglia di pensare a quel resto di Combray. Tutto questo, in verità, era morto per me6.

Nel contemplare la collezione dei ricordi che gli è fornita dalla mémoire de l’intelligence, il narratore è preso dallo sconforto. Con questo materiale infatti egli potrebbe fare eventualmente un resoconto oggettivo di quanto gli è avvenuto, non mai però il racconto della sua vita. Perché l’evento non è potuto penetrare in lui (nella sua carne) fino a farsi esperienza, ma è stato posto invece di fronte a lui in quanto mero oggetto di conoscenza.
L’ipotesi su esposta (che Benjamin riprende da Freud) secondo cui la coscienza: “sterilizzerebbe questo evento per l’esperienza poetica, incorporandolo direttamente nell’inventario del ricordo consapevole”7, spiega così la genesi delle notizie sul passato che non conservano nulla di esso. Di fronte al loro triste catalogo, non resta al narratore che la forza per questa lieve protesta: “Eppure ho visto, dice, nella mia vita molte belle cose8.

Benjamin si domanda9: ma è veramente così “naturale” che sia affidato al caso, se un uomo giunge ad avere un’immagine della sua vita, o a non averla mai, benché da ciò dipenda, a ben vedere, la stessa possibilità di esserne “il narratore”?

Giacciono così: “mutati”, nel cimitero ben ordinato della memoria, tutti i ricordi dell’esperienza vissuta “espressamente, consapevolmente” (“l’esperienza defunta, dice Benjamin, che si definisce, eufemisticamente, «esperienza vissuta»”10), mute, pallide immagini di un tempo cui non possiamo ridestarci, restìo ad ogni interferenza col presente (restìo a “fare scintille”), non perché esso sia così “distante”, da non poter più essere strappato a quell’oblio cui appartiene ormai, ma per il fatto che, diversamente, tra questo tempo e il tempo presente, non sono state “mantenute le distanze” (la profondità, l’oblio). Questo passato è così immanente da dare quasi la nausea.

Sì, se il ricordo, grazie all’oblio, non ha potuto contrarre nessun legame, gettare nessun ponte tra sé e il momento presente: se è rimasto nel suo proprio luogo, alla sua propria data, se ha conservato le distanze... esso ci fa di colpo respirare un’aria nuova — nuova proprio perché è un’aria che s’è già respirata in passato — quell’aria più pura che invano i poeti hanno tentato di far regnare in Paradiso, e che non potrebbe darci questa sensazione profonda di rinovellamento se non fosse già stata respirata, perché i veri paradisi sono i paradisi che abbiamo perduti11.

2. Se la coscienza è distruttiva della memoria (si sostituisce all’impronta mnemonica) ciò è per riparare (difendere) quell’ente che noi stessi siamo, dal suo essere così costantemente esposto alla natura percettibile di tutte le cose.
Quanto la “sensazione del presente” costituisca una minaccia per noi, lo si può ricavare a sufficienza ascoltando Baudelaire, quando “a suo modo” dice:

Que les fins de journées d’automne son pénétrantes! Ah! pénétrantes jusqu’a la douleur! car il est de certaines sensations délicieuses dont la vague n’exclut pas l’intensité; et il n’est pas de pointe plus acérée que celle de l’Infini12.

La “punta dell’Infinito” è certamente la più acuminata, e tuttavia la perdita di una sofferenza così dolce potrebbe essere anche più dolorosa. Perché la percettibilità, di cui abbiamo parlato — come della minaccia che ci viene dal nostro essere così situati in mezzo all’ente (con una comprensione del suo essere) —, non è nient’altro che quella dell’aura13, il manto splendido (intenso) che circonda le cose per il semplice fatto che sono presenti adesso, sono vive (il manto “irto di aculei”!) il manto delle cose che “si incendia” quando le cose (avvolte così splendidamente nella loro apparenza), accolgono la nostra interpellanza, e ad uno sguardo corrispondono con uno sguardo14.
È come un’indeterminarsi del contorno, un fremito che corre lungo il bordo della presenza, sul limite del bordo (alone). È il rosseggiare della rosa (il coseggiare della cosa), l’essenza della cosa nel suo significato verbale, tremito della presenza. Baudelaire parla di un surplus che inerisce al presente, per il fatto stesso di essere presente; Benjamin invece de l’“apparizione irripetibile di una lontananza, per quanto questa possa essere vicina”15.
Sopra il sonetto Correspondances di Baudelaire, dove il poeta fa assolutamente l’esperienza dell’aura, Benjamin scrive: “Chi è guardato o si crede guardato alza gli occhi. Avvertire l’aura di una cosa significa dotarla della capacità di guardare”. E poi aggiunge: “Ciò è confermato dai reperti della mémoire involontaire16.
Così infatti le immagini — balenanti, vivide — del passato, che si presentano al Narratore da sé (spontaneamente) nell’impressione suscitata da un oggetto, o dalla sensazione di un oggetto, fuori di lui — e che sussistono per quel tanto e fin tanto che egli resiste in esse, nell’impressione che lo attraversa, senza intenzione (appena egli le tematizza esplicitamente, esse non sono più) —, le immagini, dicevo, balenanti e vivide, apporto della mémoire involontaire, sono l’“aura” di quell’oggetto (o, se si vuole, l’indice della sua “pericolosità”).
È proprio qui l’oggetto “nello stato di somiglianza”17 che, col suo sguardo, può trascinare lontano il poeta, nell’ora in cui l’oggetto appare come non è “mai stato”. Ma esso non sopporta l’inquisizione dell’intelletto (Verstand), che lo interpella unicamente e solo per svelarne il “segreto”.
Preso infatti una volta quell’oggetto sotto la condizione del concetto (Begriff), della splendida veste, che tanto ci piaceva, ne è nulla, e nulla anche di ciò che quella veste lasciava affatto apparire. Ovvero: non l’oggetto sotto la veste — ché anzi esso sussiste in quanto mero oggetto dell’intelletto — ma: “ciò che è indefinibile”18 nell’oggetto, il suo “segreto”, il bello.

Si dà a vedere qui la peculiare concezione benjaminiana della verità, intesa come un essere “aintenzionale”. Difficilmente questa definizione potrà mai essergli contestata! Non vi è infatti criterio più sicuro, per il riconoscimento dell’opera d’arte, della completa totale estinzione in essa (nel suo “gelo”) dell’intenzione (Meinung) dell’autore (al cui livello di “estraneazione” anche la critica deve sollevarsi19). Perché non può apparire bello, quanto semmai sublime (al di là del bello) ciò che partecipa dell’intenzione di un creatore, ed è pertanto vana la tentazione di pervenire alla verità del bello, al “contenuto” dunque del bello20, tramite l’inserimento a forza dentro un piano (un progetto, un voler dire) dell’istanza che l’ha reso visibile (foss’anche il piano prestabilito della salvezza).

La verità non entra mai a far parte di una relazione, tanto meno di una relazione intenzionale. L’oggetto della conoscenza, in quanto oggetto determinato nell’intenzione concettuale, non è la verità. La verità è un essere aintenzionale formato di idee. Il comportamento che le si addice è perciò, non un intenzionare nel conoscere, bensì un risolversi e uno scomparire in essa. La verità è la morte dell’intenzione. Precisamente questo può essere il significato della favola dell’immagine velata, a Sais, la quale, mostrata, provoca la distruzione di colui che riteneva di poter interrogare la verità21.

Benjamin chiama “privo di espressione” (ausdruckslos) un tale gesto che “raggela” (l’“istanza critica”) e osserva come il concetto hölderliniano di “sobrietà occidentale, giunonica”22 non sia che un altro modo per dire la stessa cosa23.

Solo dunque velato dalla “bella apparenza” il bello appare (come: “ciò che necessariamente è più velato”). “Disvelato, scrive Benjamin, esso si rivelerebbe infinitamente inappariscente”. Ed aggiunge: “Su ciò si fonda l’antichissima idea che nel disvelamento il velato si trasforma, che esso rimarrà ‘eguale a se stesso’ solo sotto l’involucro”24.
Non è pertanto còmpito dell’artista sottoporre il “segreto” della presenza alla chiara luce della coscienza, in vista della sua decifrazione, bensì fissare nell’istante il movimento intrinseco alla “bella apparenza” (renderlo eterno), tramite un gesto che, con la sua autorità (l’autorità del vero), ne interrompa il venire e l’andare: “onde appaia così — scriveva Hölderlin a proposito dell’interruzione del ritmo nella tragedia — non più questo avvicendarsi, ma l’immagine, la rappresentazione stessa”25.

3. A questo “canto delle sirene” che sale dal presente — cui tutti sono esposti, ma il poeta di più, nel suo “naufragio” —, Ulisse contrappose “cera e catene”, perché sapeva che il suo fascino era mortale (la maga Circe gli aveva rivelato la verità sul conto delle Sirene, così come egli la riferisce ai compagni:

Chi ignaro approda e ascolta la voce / delle Sirene, mai più la sposa e i piccoli figli, / tornato a casa, / festosi l’attorniano, / ma le Sirene col canto armonioso lo stregano, / sedute sul prato: pullula in giro la riva di scheletri / umani marcenti / sull’ossa le carni si disfano26).

Perché la “sensazione del presente”, questo divino fremito, quest’aura che circonda le cose, è come un brivido che coglie tutto l’ente che “adesso” è (presente) e “adesso”... non è più (questa fragilità della presenza, soggetta al male e alla morte).
Forse nessuno mai come Baudelaire ha visto la bellezza nello splendore della carne in putrefazione27. Forse nessuno mai come Leopardi ha cantato il cieco brulichìo del vivente28.

La tradizione metafisica occidentale, che riconduce questa lacerazione che vige nel cuore stesso della presenza, alla trasparenza di un rapporto tra ciò che è veramente (l’ontos on, l’idea, il paradigma) e ciò che, invece, è più niente che ente (il fenomeno, la copia), si manifesta infine animata — altro che dall’istanza di “salvare i fenomeni” — da ciò che Nietzsche ha chiamato: lo spirito di vendetta contro il tempo e il suo “così fu”29.
E infatti, in ogni istanza di salvazione del sensibile nel sovrasensibile — questo mondo “di qua”, mutevole e irreale, che riceve il suo senso e il suo essere da un al di là considerato come il “mondo vero” — si dà a vedere ormai solo la volontà dell’uomo di abbassare (svilire) il temporale fino al non-essere: Perché la sofferenza della volontà per il passare arriva fino al punto di volere che il passare “passi”, posto che, intanto, non è degno di essere (come l’eterno che è il vero essere).
Ciò viene in luce soltanto quando la tradizione greco-occidentale si trova a fare i conti con la catastrofe che l’uomo folle annuncia nel passo n. 125 de La gaia scienza (quel giorno in cui, si narra, l’uomo folle girò per molte chiese recitando il suo Requiem aeternam Deo 30).
E infatti: “Dio è morto! Dio resta morto!”, e la creatura affonda nella sua infondatezza, perché l’eterno, il sole della Terra, non dispensa più vita alcuna.
“Che mai facemmo”, gridava l’uomo folle come un pazzo una mattina in mezzo al mercato: “Che mai facemmo a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci muoviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte?”31
Con la caduta del mondo intelligibile cade anche il mondo sensibile, e questa stessa distinzione — fra il sensibile (aistheton) e l’intelligibile (noeton) — perde ogni senso. Tutto precipita vertiginosamente e si inabissa nel Maelström prodigioso del non senso. Tutti i valori e gli ideali che, fino a quel giorno, avevano potuto costituire il fine della vita terrena, vanno in rovina — venuto meno il luogo del loro proprio consistere (la stessa mente di Dio).
Recita la parodia nietzschiana al Prologo del Vangelo di Giovanni: “All’inizio era il non senso”.

Nel noto saggio su Nietzsche che compare nella raccolta Sentieri interrotti Heidegger definisce “cieco” il tentativo dell’uomo di sottrarsi al dominio dell’insensato (sinnlos) — cui appartiene ormai la stessa distinzione fra il sensibile e l’intelligibile — tramite un “mero conferimento di senso” (Sinngebung).
Scrive:

La destituzione del soprasensibile sopprime anche il puro sensibile, e perciò la loro distinzione. La destituzione del soprasensibile sfocia in un “né... né...” rispetto alla distinzione di sensibile (aistheton) e non-sensibile (noeton). La destituzione si conclude nell’insensato (sinnlos). Tuttavia essa rimane il presupposto inavvertito e indispensabile del cieco tentativo di sottrarsi all’insensato attraverso un mero conferimento di senso (Sinn-gebung)32.

La donazione di senso (Sinngebung) di cui parla Heidegger non è il virile assenso al fatto che nonostante tutto — nonostante il male ontologico irredimibile —: l’essere sia piuttosto che il niente (così potremmo interpretare anche lo ja-sagen nietzschiano33). La donazione di senso (Sinngebung) ha a che fare piuttosto con una nuova posizione di valori, che lascia presupposta l’antica e ormai svuotata distinzione fra il sensibile e l’intelligibile (la quale dunque vige ancora, pur senza avere più significato).
Con la caduta del mondo intelligibile, cade anche il mondo sensibile... Alla caduta di tutti i valori non corrisponde tuttavia, come dovrebbe, la fine della dimensione del valore, ed anzi la sua crescita ipertrofica è, oggigiorno, sotto gli occhi di tutti. Ciò non dipende forse dal caso o dal destino, quanto piuttosto dalla “brutta piega” che hanno preso, ancora una volta, le cose. Perché i dominatori della Terra, che non potevano certo istallarsi al posto vuoto di Dio, né d’altra parte “rinunciare a tutto” (tutto ciò che, da generazioni, “in nome di Dio”, erano soliti fare per la conservazione e il potenziamento del loro proprio dominio) — temendo di prendere stanza in quel non-luogo, quell’u-topia che tutti quanti siamo finché siamo — si sono aperti: “un altro posto metafisicamente corrispondente, che non è identico né alla regione dell’essenza divina né all’essenza dell’uomo”34.
Non è qui il luogo di argomentare la formazione del dominio della soggettività moderna, così come è venuta a configurarsi dal giorno in cui Cartesio fece coincidere in un punto archimedico astratto detto ego cogito, il soggetto dell’esperienza e quello della scienza35.
Possiamo dire, tuttavia, che nella fase del “nichilismo compiuto”, la volontà invidiosa procede ad un’estrema posizione di valori, che è anche il “rovesciamento” di tutti i valori precedenti36. Perché i nuovi valori non sostituiscono gli antichi nella regione vuota del soprasensibile, ma altro (completamente) è il loro principio e la regione del loro proprio consistere, ovverossia: il vivente come “centro della volontà di potenza” (centro di dominio)37.
Possiamo immaginare la volontà di potenza — in cui consiste, secondo Nietzsche, l’essenza stessa del vivente — come una specie di “istinto di conservazione” che muove ogni “soggetto” conformemente al grado di coscienza che gli è proprio (tanto più, quanto meno la sua coscienza è “assopita”), non fosse che la volontà di potenza non vuole solo la “conservazione” della vita, ma anche e innanzitutto il suo “potenziamento”, vuole cioè le condizioni della conservazione-accrescimento della propria potenza38.
La sua “morale” è interamente contenuta in un supremo giudizio di valore, in cui si afferma:

L’arte vale di più della verità39.

4. Poiché la volontà di potenza non è una “determinazione reale” della cosa, ma, a ben vedere, il suo “essere” stesso, perciò ciascuna cosa in quanto è, ovvero ontologicamente, si costituisce come centro della volontà di potenza.
È nella “logica” della volontà di potenza, che questi centri non restino isolati, bensì, per aumentare appunto la loro potenza, si uniscano a formare delle “concentrazioni”. A ciò li sprona l’arte, “il grande stimulans della vita”40.
L’arte è lo sprone della volontà di potenza. In quanto aizza la volontà a volere “oltre se stessa” — ad aumentare cioè, oltre al bisogno, la sua potenza di porre-valori —, per questo l’arte è il “supremo valore”. È infatti un “valore” qualunque parte del corpo senza vita della tradizione, serva, di volta in volta, al fine della conservazione-accrescimento del vivente41 in quanto “centro della volontà di potenza” (centro di dominio).
Come scriveva Nietzsche:

Il valore è essenzialmente il punto di vista per il rafforzamento o l’indebolimento di questi centri di dominio42.

Per questo l’arte è il “supremo valore”, in quanto aizza la volontà di potenza a concentrare in sé ogni potenza di porre-valori — ogni “concentrazione di potenza” a spese di ogni altra — mediante un esercizio-esibizione di potenza, quale ad esempio (e innanzitutto) la guerra. È infatti “nella logica” della volontà di potenza che ciascun centro o concentrazione della volontà di potenza sia d’ostacolo all’altro/a quanto al raggiungimento di un medesimo fine (che definiremo, senza esitazioni: “egoistico”).
Scrive Nietzsche:

I valori e il loro mutamento sono in rapporto all’accrescimento di potenza di coloro che li pongono43.

La guerra è un grande dispendio di potenza, un sacrificio di uomini e di beni, su cui, di volta in volta, i vincitori fondano il loro dominio. Nell’era infatti in cui il dettato della tradizione è divenuto “lettera morta” la guerra serve almeno ai vincitori per avere qualcosa da celebrare.
La vittoria di un centro di dominio non implica soltanto un ampliamento del dominio del vincitore44, bensì anche l’imporsi del suo punto di vista determinato, che tende a far valere come “valori universali” le condizioni della conservazione-accrescimento del suo proprio dominio (piuttosto che... di un’altro).
Il movimento di concentrazione della potenza, che è un “andare da una guerra e l’altra”, procede poi fino al momento in cui, su tutto l’ente, non domina che un solo “punto di vista”, il quale in sé concentra la maggior parte della potenza. Ciò non significa che non ci sono più guerre, ma che le guerre, ad un certo momento, non possono servire che al consolidamento di un solo punto di vista dominante.
Quando su tutto l’ente è dominante un solo punto di vista, l’uomo si fa un’“idea fissa” dell’ente, l’idea cioè che tutto quanto esiste “sotto il sole”, nonché il corpo integrale della tradizione, valga e possa essere utilizzato per quel tanto e fin tanto che (gli) serve per soddisfare gli arbitri della (sua) essenza volenterosa (“pacificata” ormai, benché sempre “sfrenata”), nell’era del dominio di un solo punto di vista45.

Nel brano intitolato: “Delle tarantole” Zarathustra illustra la sua speranza del mondo a venire. “Giacché: che l’uomo sia redento dalla vendetta — questo è per me il ponte verso la suprema speranza e un arcobaleno dopo lunghe tempeste”46.
La volontà redenta dalla vendetta dimette la sua avversione contro il passare. Essa non vuole più che il passare “passi” — che il contingente “trapassi” in quanto tale, per essere “salvato” nell’eterno. La volontà muta il suo no! in un sì! Essa afferma il passare in quanto tale, nega che esso sia niente, e questo proprio nell’istante più atroce, quando esso appare nella luce (allucinante) della necessità dell’assenza di ogni necessità.
“Vuoi tu questo ancora una volta e ancora innumerevoli volte?”47

E’ alla struttura della ripetizione che Benjamin riconduce il pensiero nietzschiano dell’“eterno ritorno”, all’interno di una costellazione di concetti che ha al suo centro il gioco infantile. Nel gioco agisce infatti irresistibilemente l’istanza dell’“ancora una volta”, la freudiana “coazione a ripetere”, non però come ripetizione scimmiesca di un fatto presupposto, bensì ogni volta, proprio nella ripetizione, come se fosse la prima volta: la libera invenzione di un gesto.

“Il bambino si crea tutto ex novo, ricomincia ancora una volta da capo. Questa è forse la radice più profonda del doppio significato del tedesco Spielen: la ripetizione della stessa cosa è forse l’elemento comune ai due sensi della parola. Non è già un “fare come se”, ma “un fare sempre di nuovo”, la trasformazione dell’esperienza più sconvolgente in un’abitudine, ciò che costituisce l’essenza del gioco”48.

5. Fra i Petits poemes en prose di Baudelaire, ve n’è uno intitolato Perte d’auréole 49. Vi si racconta il caso di un poeta che — nel passare, saltellando nella mota, da un marciapiede all’altro: “attraverso questo caos mobile dove la morte arriva galoppando da tutte le parti”50 — perde, in un movimento brusco, la sua aureola, un fatto questo non privo di conseguenze piacevoli per l’infortunato, per quanto, a prima vista, di segno opposto (giacché si tratta qui, piuttosto, della perdita di qualcosa che del suo acquisto. In Proust appunto: “il tempo ritrovato”, in Baudelaire: “la perdita d’aureola”).
“Non ho avuto il coraggio di raccattarla”, spiega il poeta all’amico, così stupito di incontrare lui “il bevitor di quintessenza... il mangiator d’ambrosia” in un postaccio. “Ho ritenuto meno spiacevole perdere le mie insegne, che non farmi rompere l’ossa. E poi, mi sono detto, non ogni male viene per nuocere. Ora posso girare in incognito, fare delle bassezze e darmi alla crapula come i semplici mortali”51.
“Assolutamente no!”, risponde poi all’amico che vivamente gli consiglia di denunciare la scomparsa dell’aureola: “Mi trovo bene qui. Voi, voi solo m’avete riconosciuto. Del resto la dignità m’è venuta a noia. Poi, mi piace il pensiero che qualche poetastro la raccatterà e se ne cingerà sfacciatamente. Far felice uno, che piacere! e soprattutto, felice uno che mi farà ridere! Pensate a X o a Z! Sarà proprio buffo no?”52.
Nel gesto di lasciare le sue insegne in mezzo al fango della strada, Baudelaire mostra di valutare esattamente la catastrofe da cui, come moderno, è stato colpito (in questa definitività della rinuncia).
E infatti è solo nel reciproco guardarsi tra la cosa e il poeta, che avviene ch’essa abbia un’aura, ed egli... egli un’aureola! Dal momento però che le cose sono guardate ormai esclusivamente dal punto di vista (stretto) del valore, esse hanno smesso irreparabilmente di guardarci53! Perché il valore, in cui consiste ormai la loro essenza, non è che il prodotto di una soggettività sovrana separata che si vuole come ponente-valori, come cioè ponente (di volta in volta) le condizioni e garanzie della conservazione-accrescimento della sua stessa potenza di porre-valori: “così da giustificarsi costantemente, e da essere così giustizia”54; vuole l’eterno ritorno del medesimo, l’eterna vittoria dei vincitori, in una dimensione di autoreferenza assoluta.

Diritto = Volontà di eternare un mutevole rapporto di forza. La soddisfazione in esso implicita ne è il presupposto. Tutto ciò che è degno di venerazione partecipa a far sì che il diritto appaia come l’eterno55.

Il risultato è che le cose diventano cieche e il poeta muto.

La perspicuità del giudizio di Baudelaire sulla catastrofe della modernità, di cui abbiamo parlato, non gli può derivare, secondo Benjamin, che dall’appropriazione di ciò che in essa è andato irrimediabilmente perduto, vale a dire: quegli elementi cultuali56 dell’esperienza che nel sonetto intitolato Correspondances ancora: “celebrano le loro feste”57.
Potremmo chiederci: come avrà fatto il pur divino Baudelaire ad appropriarsi di qualcosa che è andato irreparabilmente perduto, giacché, quanto alla “perdita dell’aura”, non vi può essere alcun dubbio che essa sia realmente avvenuta? Chiediamo ancora. È solamente un caso, una coincidenza, che nel momento in cui le cose perdono la loro aura, l’uomo si affretti a conferire loro un valore? Non sarà forse il valore un surrogato, un sostituto dell’aura58?
Scrive Agamben: “Tutto il sonetto Correspondances può essere letto come una trascrizione delle impressioni estraneatrici prodotte da una visita all’Esposizione universale”59 (precisamente quella di Parigi60 del 1855).
Non dunque le opere della natura o dell’arte ma la merce è quell’oggetto in “stato di somiglianza” che trascina lontano il poeta, nell’ora in cui le cose — ridotte ormai a “oggetti della rappresentazione” (a materiale disponibile per la produzione, lo sfruttamento e il calcolo) — hanno perduto irreparabilmente la loro aura (la capacità di stupire).
La merce, infatti, non è la cosa disincantata che si libera dalla sua “guaina cultuale” e si rende perciò disponibile per la prassi politica, né però anche l’oggetto nello “stato di indifferenza” (potremmo dire: la cosa in quanto oggetto dell’intenzione concettuale), bensì qualcosa di ambiguo che riproduce in sé l’antica distinzione fra il sensibile e l’intelligibile, qualcosa di “sensibilmente sovrasensibile”.

A prima vista, una merce sembra una cosa triviale, ovvia. Dalla sua analisi risulta che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici. Finché è valore d’uso, non c’è nulla di misterioso in essa, sia che la si consideri dal punto di vista che essa soddisfa, con le sue qualità, bisogni umani, sia che riceva tali qualità soltanto come prodotto di lavoro umano. È chiaro come la luce del sole che l’uomo, con la sua attività, cambia in maniera utile a se stesso le forme dei materiali naturali. P. es. quando se ne fa un tavolo, la forma del legno viene trasformata. Ciò non di meno, il tavolo rimane legno, cosa sensibile e ordinaria. Ma appena si presenta come merce, il tavolo si trasforma in una cosa sensibilmente sovrasensibile. Non solo sta coi piedi per terra, ma, di fronte a tutte le altre merci, si mette a testa in giù, e sgomitola dalla sua testa di legno dei grilli molto più mirabili che se cominciasse spontaneamente a ballare61.

Nell’epoca in cui “avere una sorpresa” è divenuto impossibile, Baudelaire approfitta dunque della natura ambigua della merce — che fa apparire strano (unheimlich) ciò che è più familiare (heimlich), ovvero: un tavolo, un martello, l’oggetto d’uso insomma — per provocarsi degli chocs come “motivi” dell’ispirazione. Perciò nel suo confiteor Baudelaire descrive l’atto di creazione come: “un duello in cui l’artista, prima di soccombere, grida di spavento”62! Possiamo dubitare infatti, a questo punto, che lo spavento sia provocato in lui da un acuirsi di quella che egli chiama (ivi): “punta dell’infinito”, piuttosto che dal rinnovarsi in lui della certezza di non poter provare più una sensazione di quel tipo. E quale “macchina poetante” egli diventa, in tale circostanza, questo “autoannientantesi nulla”! Si tratta infatti di liberare l’oggetto dalla sua nuova guaina, facendo esplodere per così dire il potenziale di estraneazione che gli deriva dalla perdita del suo valore d’uso, col riprodurre nell’opera d’arte lo stesso processo che ha “caricato” l’oggetto d’uso di quel suo potenziale (choc dello choc).

6. Che cosa dire, ora, di una generazione che ha perduto la facoltà di avere la “sensazione del presente” e, pertanto, ogni accesso alla mémoire involontaire? Che cosa dire del verso di Baudelaire che dice questa cosa:

Le Printemps adorable a perdu son odeur!

Come scriveva Kafka rivisitando la leggenda omerica delle Sirene: “Ora però le sirene hanno un’arma ancora più terribile del canto, ed è il loro silenzio”; perché qualcuno forse al canto delle sirene avrebbe potuto ancora sfuggire (benché non sia mai successo), e però mai nessuno al loro silenzio: “Al sentimento di averle vinte con la propria forza, e all’orgoglio che ne nasce e che tutto trascina con sé, niente di terreno può resistere”63.

Si tratta di una forma estrema di vigilanza della coscienza, quando nessuno stimolo (nessuna freccia) riesce ad eludere più la sorveglianza (scudo) della coscienza e a penetrare in noi come “potenza” di un’esperienza integrale (di un’ora in cui il passato appare come non è “mai stato”), ma tutto resta alla superficie.
Benjamin scrive: “nello spleen la coscienza del tempo è acuita in modo soprannaturale; ogni secondo trova la coscienza pronta a parare il suo colpo”64.
Lo spleen è il sentimento del sempre-uguale che insorge di fronte ad una rappresentazione della storia come la marcia della specie “homo sapiens” attraverso il tempo lineare e continuo. A tale rappresentazione l’uomo moderno è indotto dalla fede nelle: “magnifiche sorti e progressive”65: “Questa grandiosa fede, scrive Husserl, che fu già il sostituto della fede religiosa, la fede che la scienza conduca alla saggezza — a una conoscenza di sé veramente razionale, a una conoscenza razionale del mondo e di Dio e, attraverso di essa, ad una vita veramente degna e sempre perfettibile, una vita vissuta nella felicità, nella soddisfazione, nel benessere...”66 (questa fede “dogmatica” della ragione, contro cui la filosofia di Benjamin rivolge l’arma affilata della critica, al fine unicamente della sua distruzione).

Non è difficile capire che la felicità non è la calma piatta e cimiteriale che si instaura nell’era del dominio di un solo “punto di vista” (di cui il “pluralismo delle opinioni” è l’altra faccia di Giano), quando l’uomo alienato si fa un’“idea fissa” dell’ente, l’idea che l’ente, divenuto oggetto, sia interamente a sua disposizione da sfruttare (ne è un esempio lo sfruttamento intensivo della Natura, compresa unicamente come fondo di materiale per la produzione, lo sfruttamento e il calcolo), ma la felicità è il balenare improvviso della verità “qui e ora”, che “fa saltare” il continuum della storia.
Perché la fede nel progresso è una malafede che predica il cambiamento a condizione che tutto resti com’era. È infatti “dato per scontato” che il dominio presente, per quanto ancora imperfetto, sia, ad ogni modo, il migliore possibile e che poi il resto piano piano verrà “su questa strada” (verrà, per così dire, “naturalmente”). Questo dichiara il progressista: l’“ultimo uomo”, “il più spregevole”, ed ammicca.

Ecco! io vi mostro l’ultimo uomo. / “Che cos’è amore? E creazione? E anelito? E stella?” — così domanda l’ultimo uomo e ammicca. / La terra allora sarà diventata piccola e su di essa saltellerà l’ultimo uomo, quegli che tutto rimpicciolisce. La sua genia è indistruttibile, come la pulce di terra; l’ultimo uomo campa più a lungo di tutti. / “Noi abbiamo inventato la felicità” — dicono gli ultimi uomini e ammiccano67.

Come nelle correspondances si stabiliva fra l’uomo e le cose un tipo di rapporto quale generalmente l’uomo crede di intrattenere solo coi suoi simili, ovvero appunto: lo “scambio dello sguardo”, così l’“ammiccamento” dell’“ultimo uomo” è altresì un rapporto che si instaura anche fra l’uomo e le cose, quando le cose, ridotte ormai ad oggetti porta-valore, splendenti del falso splendore della merce, dal canto in cui si trovano gettate, alla mercé dell’arbitrio dell’uomo, lo adocchiano, ogni tanto, sinistramente. Contro di lui, esse si volgeranno un giorno “sferragliando”. Ma, nel frattempo, si limitano a sbirciarlo di sottecchi, e ad ammiccare alla sua volta sinistramente (quasi a voler far presagire qualcosa).

“Ammiccare” ha a che fare con “scintillare”, “splendere”, “apparire”. Ammiccare significa: darsi una certa aria e far sì che qualcosa appaia in modo tale che ci si aspetti un esito positivo, pur essendo reciprocamente d’accordo, anche senza una formulazione esplicita, che non si terrà in seguito alcun conto di queste apparenze. Ammiccare: il presentarsi in ogni cosa della superficie più esteriore, oggettiva (gegenstandlichen) e condizionata (zustandlichen), quella che ognuno si aspetta, e che alla fine non è neanche più necessario che ci si aspetti, come se fosse l’unica valida, attraverso cui l’uomo conduce le sue azioni e valuta ogni cosa68.

L’accesso alla mémoire involontaire può eventualmente essere provocato con un artificio, come Odisseo chiamava fuori dall’Ade le ombre (eidola) dei defunti, attirandoli col sangue di un animale sacrificato69. L’effetto che si persegue non è diverso da quello che ricerca chi si dà all’alcool, cioè lo stordimento e l’oblio del tempo.

Ma non è forse la mémoire involontaire anch’essa uno speciale artificio in vista della produzione di un’esperienza “integrale” cui, altrimenti, non avremmo più accesso, acquisto estremo di un soggetto in isolamento totale, piegato molte volte su di sé (stratificato, freddo, indurito), a volte preda del ridicolo quando, davanti a un pubblico, si trova ad essere così esposto e investito dalla violenza del ricordo70? Perché il salotto dei Guermantes non è una corte Rinascimentale, né fra i potenti e i poeti può più sussistere alcuna complicità nel garantire la continuità di una tradizione di cui si è persa irreparabilmente la potenza, cioè: non questo o quel contenuto tramandabile, ma la tramandabilità stessa di un qualsivoglia contenuto — alienazione del mezzo stesso di trasmissione — di modo che possiamo solo accumulare ciò che il passato ci invia “in una sorta di archivio di mostruoso”, come scrive Agamben, senza poter più trarre da esso, dall’invio: “il criterio della nostra azione e della nostra salute”71. (In questo senso la Modernità è un perdurare nell’epigonalità, senza mai pervenire allo status di posterità).

7. “Dimostrazione del fatto che anche mezzi insufficienti, anzi infantili, possono servire alla salvezza”72.

Le immagini balentanti vivide che sono apporto della mémoire involontaire si manifestano al Narratore relatrici di una forza soterica che è sufficiente a riscattare la sua intera vita. Perché nell’atto in cui esse si impongono alla coscienza, è dissolta “l’apparenza del sempre-uguale” e l’apparato che garantiva la sussistenza di quella falsa apparenza: l’Istituzione per la Conservazione e il Mantenimento dello Stato-di-Cose si mostra a nudo (tutto un sistema di valori ad hoc)73.
Nello smascheramento della finzione del sempre-uguale, in questo disincanto, al tempo cupo della rassegnazione si sostituisce il tempo chiaro dell’opportunità, cui corrisponde, con “una presa rapida e brutale”, l’afferramento del tempo perduto. Di questo tempo — che adesso stringe fra le mani — uno può finalmente fare qualcosa, lo può “rimettere in gioco”, nel modo, per esempio, della sua “narrazione”.

In ogni vera opera d’arte c’è un momento in cui spira su chi vi penetra un’aria fresca come un vento di primo mattino. Per questo risulta che l’arte, considerata spesso refrattaria ad ogni relazione col progresso, può servire alla sua autentica definizione. Il progresso non è di casa nella continuità del corso del tempo, ma nelle sue interferenze: là, dove il veramente nuovo si rende percepibile per la prima volta con la sobrietà del mattino74.




Sistema

Per Benjamin, come per Kant, l’Architettonica è “l’arte del sistema”. Kant definisce il sistema: “l’unità di molteplici conoscenze raccolte sotto un’idea”75. Che qui si tratti di una sussunzione, Benjamin può ben dubitarlo, perché (proprio da Kant) egli ha imparato che l’idea non è un concetto che scaturisca dalla riflessione dell’intelletto e che pertanto: “quale criterio del suo consistere non si può adottare quello pertinente la questione se essa comprenda sotto di sé ciò che ha colto, come il concetto di specie comprende i generi”76. Perciò, secondo Benjamin, l’Architettonica è l’arte del sistema ma il sistema è valido solo se configura una costellazione di concetti, non una loro serie. Non la derivazione inferenziale dei concetti l’uno dall’altro e tutti da un unico principio (questo ideale “matematico” della conoscenza, in cui Benjamin scorge: “la presunzione di impadronirsi della verità abbracciando il tutto enciclopedico delle conoscenze della verità, la quale rimane un’unità esente da salti”77), ma il loro essere in relazione tutti, l’uno rispetto all’altro, nell’unità dell’idea, come però divisi l’uno dall’altro, conformemente a quella “discontinuità” che regna nel mondo stesso delle idee (della cui unità interna o sistematica, anche secondo Kant, non possiamo parlare, se non come della struttura meramente soggettiva della nostra ragione).
L’architettonico esige dunque: “l’arte del comporre di contro alla catena deduttiva”78, secondo Benjamin, là dove l’elemento singolare non è la parte sacrificata del tutto, bensì “diviene” tutto (nell’ora della sua leggibilità).

Tra il rapporto del singolo e dell’idea e quello del singolo e del concetto non si dà analogia: nel secondo caso esso cade sotto il concetto e rimane quel che era — singolarità; nel primo è nell’idea e diventa quel che non era — totalità. E questa è la sua platonica salvazione79.
Spleen

L’estrema innaturalità dello spleen può forse essere compresa a partire dall’argomento cui Kant ricorre per spiegare l’impossibilità di una dimostrazione dei princìpi dinamici dell’intelletto puro, cioè che: “il tempo non si può percepire”80. Si tratta qui di fare alcuni accenni alla paradossale situazione in cui verrebbe a trovarsi un uomo nel caso avesse qualcosa come una “percezione del tempo”, argomentando sulla base della dottrina di Kant.
Se il tempo fosse percettibile, non vi sarebbe alcun bisogno di aspettare che l’oggetto si “installi”, per così dire, nella presenza (nell’ora che è, di volta in volta), per stabilire, in base a questo dato, il carattere temporale di ciò che, pur non essendo dato, è presente (ed il rapporto temporale tra i due), conformemente all’unità regolativa rappresentata nelle categorie (es. causa-effetto), perché potremmo determinare a priori il posto che l’oggetto occupa nel tempo e la sua relazione col tempo, con la stessa certezza intuitiva con cui determiniamo il posto che il numero10 occupa nella serie numerica. Potremmo infatti costruirne il concetto, ovvero: non semplicemente distinguere l’oggetto da tutti gli altri ogniqualvolta esso ci si presenti assieme a tutti gli altri, in base, appunto, al concetto che abbiamo di esso (esso ci è dato), bensì determinare la presentazione stessa dell’oggetto, ogniqualvolta ce ne venga voglia, tramite (appunto) la costruzione del concetto (così come facciamo con l’ente matematico).

Il problema, a ben vedere, è: come potremmo mai avere una sorpresa di fronte al fatto che le cose sono, nell’era in cui il soggetto, che si vuole assoluto, non riconosce altro principio dell’esistenza dell’oggetto che il proprio porre rappresentativo?
Il soggetto determina a priori non solamente le condizioni formali della possibilità dell’oggetto, bensì le condizioni effettive della sua presentazione (hic et nunc) che sono anche le condizioni della sua produzione all’interno di un progetto tecnico.

I quadri futuristi

L’ultima scena del film Salò di Pasolini presenta il sadico-fascista nel mentre assiste, munito di binocolo, allo spettacolo della tortura dei ragazzi che si svolge nel cortile, sotto le sue finestre. Appesi alle pareti della stanza, dove si sta come in un palco a teatro, sono visibili i quadri futuristi.

Fiat ars — pereat mundus”, dice il fascismo, e, come ammette Marinetti, si aspetta dalla guerra il soddisfacimento artistico della percezione sensoriale modificata dalla tecnica. È questo, evidentemente, il compimento dell’arte per l’arte. L’umanità, che in Omero era uno spettacolo per gli dèi dell’Olimpo, ora lo è diventata per se stessa. La sua autoestraniazione ha raggiunto un grado che le permette di vivere il proprio annientamento come un godimento estetico di prim’ordine. Questo il senso dell’estetizzazione della politica che il fascismo persegue. Il comunismo gli risponde con la politicizzazione dell’arte81.







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1 M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto, Torino, Einaudi, 1978, vol. VII, p. 203.
2 Ibidem, p. 197.
3 Cfr. ibidem, p. 201.
4 Ibidem, p 197.
5 Ibidem, p. 199 sgg.
6 Ibidem, vol. I, p. 48.
7 W. Benjamin, Di alcuni motivi in Baudelaire, in Angelus novus, Torino, Einaudi, 1962, p. 96. Benjamin fa riferimento all’opera di Freud Al di là del principio del piacere (1920), in La teoria psicoanalitica, Torino, Boringhieri, 1979. Cfr. in particolare cap. 4, p. 233 sgg.
8 M. Proust, Alla ricerca..., cit., vol. VII, p. 204 (corsivo nostro).
9 W. Benjamin, Di alcuni motivi..., cit., p. 92.
10 Idem, Parco centrale, in Angelus novus, cit., p. 140.
11 Ibidem, p. 201.
12 C. Baudelaire, Il confiteor dell’artista, in Piccoli poemi in prosa, Milano, Rizzoli, 1990, p. 75.
13 Cfr. W. Benjamin, Di alcuni motivi..., cit., p. 124.
14 Argomentando intorno alla dottrina platonica della partecipazione (methexis) delle cose alle idee, Heidegger scrive: “L’idea è il volto con cui qualcosa mostra ogni volta il suo aspetto, con cui ci guarda e in questo modo, ad es. un tavolo, appare. Esso ci guarda a partire da questo aspetto” (M. Heidegger, Che cosa significa pensare?, Milano, SugarCo, 1978, vol. II, p. 93).
15 Cfr. W. Benjamin, Piccola storia della fotografia, in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi, 1966, p. 70: “Che cos’è propriamente l’aura? Un singolare intreccio di spazio e di tempo: l’apparizione unica di una lontananza, per quanto questa possa essere vicina. Seguire placidamente in un mezzogiorno d’estate, una catena di monti che getta la sua ombra sull’osservatore, fino a quando l’attimo o l’ora, partecipino della loro apparizione — tutto ciò significa respirare l’aura di quei monti, di quel ramo”. Cfr. anche idem, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, p. 25: “Cade qui opportuno illustrare il concetto, sopra proposto, di aura a proposito degli oggetti storici mediante quello applicabile agli oggetti naturali. Noi definiamo questi ultimi apparizioni uniche di una lontananza, per quanto questa possa essere vicina. Seguire, in un pomeriggio d’estate, una catena di monti all’orizzonte oppure un ramo che getta la sua ombra su colui che si riposa — ciò significa respirare l’aura di quelle montagne, di quel ramo”.
16 Idem, Di alcuni motivi..., cit., p. 124.
17 Cfr. ibidem, p. 117, nota.
18 Ibidem.
19 Cfr. idem, Le affinità elettive, in Angelus Novus, cit., p. 236: “Così, di fronte a tutto ciò che è bello, l’idea del disvelamento diventa quella della sua indisvelabilità. Essa è l’idea della critica d’arte. La critica d’arte non deve sollevare il velo, quanto piuttosto — attraverso l’esatta conoscenza di esso come velo — sollevarsi, solo così, alla vera intuizione del bello. All’intuizione che non si schiuderà mai alla cosiddetta “immedesimazione”, e solo imperfettamente alla più pura contemplazione dell’ingenuo: all’intuizione del bello come segreto”.
20 Idem, Il dramma barocco tedesco (Premessa gnoseologica), Torino, Einaudi, 1971, p. 9.
21 Ibidem, p. 13.
22 Cfr. la lettera di Hölderlin a Böhlendorff del 4 dicembre 1801.
23 W. Benjamin, Le affinità elettive, cit., p. 221 sgg.
24 Ibidem, p. 236.
25 Cfr. ibidem, p. 221 sg.: “Come l’interruzione mediante una parola di comando può trarre, dalle tergiversazioni di una donna, la verità proprio sul punto in cui le interrompe, così l’inespresso costringe l’armonia tremante a fermarsi, ed eterna (con questa obbiezione) il suo tremito. In questo eternamento il bello deve render conto di se stesso, ma proprio in questo render conto esso appare come interrotto, e riceve l’eternità del suo valore in virtù di quell’interruzione. L’inespresso è la potenza critica, che se non può separare, nell’arte, l’apparenza dall’essenza, vieta loro però di mescolarsi. Esso possiede l’autorità come parola morale. Nell’inespresso appare la potenza superiore del vero, che determina, secondo le leggi del mondo morale, la lingua di quello reale. Esso spezza, cioè, quel che resta, in ogni bella apparenza, come eredità del caos: la totalità falsa, aberrante — la totalità assoluta. Esso solo compie l’opera riducendola a un “pezzo”, a un frammento del mondo vero, al torso di un simbolo”.
26 Omero, Odissea, Torino, Einaudi, 1963, vol. XII, vv. 41-46.
27 Cfr.C. Baudelaire, I fiori del male, Milano, Garzanti, 1981. In particolare Une charogne (Una carogna), p. 53.
28 G. Leopardi, Zibaldone di pensieri (4175-4177), Milano, Garzanti, 1991, vol. II, p. 2298. “Entrate in un giardino di piante, d’erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagione dell’anno. Voi non potete volgere lo sguardo in un nessuna parte che voi non vi troviate del patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in istato di suffrance, qual individuo più, qual meno. Là quella rosa è offesa dal sole, che gli ha dato la vita; si corruga, langue, appassisce. Là quel giglio è succhiato crudelmente da un’ape, nelle sue parti più sensibili, più vitali... Quell’albero è infestato da un formicaio, quell’altro da bruchi, da mosche, da lumache, da zanzare; questo è ferito dalla scorza e cruciato dall’aria o dal sole che penetra nella piaga; quello è offeso nel tronco, o nelle radici; quell’altro ha foglie più secche; quest’altro è roso, morsicato nei fiori; quello trafitto, punzecchiato nei frutti”.
29 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Milano, Adelphi, 1991, p. 168: “Ma questo, soltanto questo è la vendetta stessa: l’avversione della volontà contro il tempo e il suo «così fu»”.
30 Idem, La gaia scienza, Milano, Adelphi, 1984, p. 129.
31 Ibidem.
32 M. Heidegger, La sentenza di Nietzsche “Dio è morto”, in Sentieri interrotti, Firenze, La nuova Italia, 1978, p. 191.
33 Per una riflessione radicale sulla domanda fondamentale della metafisica (“domanda ontologicamente ineludibile ed eticamente necessaria”) che suona: perché l’esistere di ciò che esiste piuttosto che il niente? Warum ist überhaupt Seiendes und nicht vielmehr nichts? Pourquoi il y a plutot quelque chose que rien? cfr. le opere di A. Caracciolo, in particolare Nichilismo ed etica, Genova, Il Melangolo, 1983.
34 M. Heidegger, La sentenza..., cit., p. 325.
35 Sopra le conseguenze di questa unificazione, non troviamo parole migliori di quelle usate da Agamben in Infanzia e storia, Torino, Einaudi, 1978, p. 17, dove possiamo leggere: “La trasformazione del suo soggetto non lascia immutata l’esperienza tradizionale. In quanto il suo fine era di portare l’uomo alla maturità, cioè a una anticipazione della morte come idea di una totalità compiuta dell’esperienza, essa era, infatti, qualcosa di essenzialmente finito, era cioè, qualcosa che si poteva avere e non soltanto fare. Ma, una volta che l’esperienza sia invece riferita al soggetto della scienza, che non può giungere a maturità, ma solo accrescere le proprie conoscenze, essa diventa, al contrario, qualcosa di essenzialmente infinito, un concetto “asintotico” come dirà Kant, cioè qualcosa che si può solo fare e mai avere: nient’altro appunto che il processo infinito della conoscenza”.
36 Scrive Nietzsche: “Il nichilismo incompiuto, le sue forme: viviamo in mezzo ad esse. I tentativi di sottrarsi al nichilismo, senza rovesciare i valori precedenti producono l’effetto opposto: acutizzano il problema” (Volontà di potenza, Af. 1021, anno 1887).
37 Risale senza alcun dubbio a Leibniz questa particolare configurazione (Pragung) metafisica dell’essere dell’ente come “volontà di potenza” e, in particolare, alla sua Monadologia. (Così ciascuna monade è definita anche da Leibniz: mundus concentratus, il tutto da un punto di vista, ovv. anche: miroir active indivisible, specchio vivente dell’universo, come ogni “centro della volontà di potenza” si fa, secondo Nietzsche, dal suo “punto di vista”, una determinata: “immagine del mondo”).
Si pensi anche all’interpretazione leibniziana del subjectum come l’ens percipiens et appetens (esposta in particolare in Gerh. II: tutte le parti dedicate al carteggio con il de Volder) dove perceptio è sinonimo di repraesentatio e l’appetitus è una “tendenza al passaggio” (tendentia interna ad mutationem) costitutiva di ciascun ente (in quanto tale) cui, senza dubbio, la volontà di potenza nietzschiana è (almeno idealmente) debitrice.
A questo “filo” della nostra tradizione sono legati inoltre, secondo Heidegger, Le ricerche sull’essenza della libertà umana (1809) di Schelling, e la Fenomenologia dello spirito (1807) di Hegel.
38 Nell’era del nichilismo compiuto, tutto il “vivente” si muove infatti, secondo Nietzsche, avendo in vista, come egli dice, un: “Ideale di vita potenziata al massimo” (Volontà di potenza, Af. 14, anno 1887). “Volere, in generale, scrive anche Nietzsche, significa voler divenire più forti, voler crescere e quindi volere anche i mezzi relativi” (ibidem, Af. 675, anno 1887-88).
39 Ibidem, Af. 853, anno 1887-88. Altrove è detto anche: “Abbiamo l’arte, per non naufragare nella verità” (ibidem, Af. 822, anno 1888).
40 Ibidem, Af. 851, anno 1888: “L’opera d’arte, dove essa appare senza artista, ad esempio come Corpo, come Organizzazione (il Corpo degli ufficiali prussiani, l’Ordine dei Gesuiti). In qual modo l’artista è soltanto un primo passo. Il mondo come opera d’arte che partorisce se stessa....”.
41 “Il punto di vista del ‘valore’ è il punto di vista delle condizioni di conservazione-accrescimento in ordine alle formazioni complesse di relativa durata della vita in seno al divenire” (ibidem, Af. 715, anno 1887-88).
42 Ibidem.
43 Ibidem, Af. 14, anno 1887.
44 Cfr. M. Heidegger, La sentenza..., cit., p. 219 sg.: “La conservazione dei singoli gradi di potenza della volontà già raggiunti, consiste nel fatto che la volontà si circonda di una cerchia disponibile a ogni istante e fidata, in cui possa garantirsi la propria sicurezza. Questa cerchia delimita ciò che per la volontà è immediatamente disponibile in fatto di presenza (ousìa, nel significato abituale del termine per i Greci). Questo qualcosa di sussistente diviene qualcosa di presente, cioè di continuamente disponibile, solo se sussiste attraverso un’operazione che lo pone. Questo “porre” ha il modo d’essere della produzione rappresentativa”.
45 Cfr. idem, Chi è lo Zarathustra di Nietzsche, in Che cosa significa pensare?, cit., p. 74. “Nietzsche caratterizza l’ultimo uomo come quell’uomo tradizionale che ha, per così dire, fissato in sé l’essenza umana fin qui tramandata... Il porre-innanzi, il rappresentare, si attiene allora ormai soltanto a ciò che ogni volta è posto per esso e con esso (das jeweils Zu- und Bei-Gestellte), ossia a qualcosa la cui destinazione (Zustellung) viene regolata dall’andamento e dal capriccio della rappresentazione umana e attesa in base alla generale comprensibilità e convenienza. Tutto ciò che è giunge all’apparire solo fin tanto che questo rappresentare che tacitamente ha fissato il termine dell’attesa viene destinato (zugestellt) ad essere oggetto (Gegenstand) o condizione (Zustand), perché solo così gli è concesso di essere. L’ultimo uomo, la specie definitiva dell’uomo tradizionale, fissa se stesso e in generale tutto ciò che è tramite una particolare maniera di porre-innanzi, di rappresentare”. Cfr. anche idem, L’epoca dell’immagine del mondo, in Sentieri interrotti, cit., p. 87 sg. Cfr. anche ibidem, p. 93.
46 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano, 1991, p. 119. “Diverso, certamente, è il volere delle tarantole. «Proprio questo significhi per noi giustizia: che il mondo si ricolmi delle tempeste della nostra vendetta»” — così esse parlano tra loro”.
47 Idem, La gaia scienza, cit., p. 201 sg.
48 W. Benjamin, Giocattolo e gioco, in Ombre corte, Torino, Einaudi, 1993, p. 90 (“Spielen” in tedesco significa sia: “giocare” che “recitare”).
49 C. Baudelaire, Piccoli poemi in prosa, cit., p. 279.
50 Ibidem.
51 Ibidem.
52 Ibidem.
53 Vediamo come Heidegger nel saggio L’epoca dell’immagine... (cit., p. 89) si serva proprio della metafora delle correspondances per spiegare il “percepire” dei Greci (idein), in contrapposizione alla repraesentatio dei moderni. Si tratta di due diversi modi di stare in mezzo all’ente (con una comprensione del suo essere), ma il secondo è affatto perverso. Come spiega Heidegger: “L’ente non diviene essente per il fatto che l’uomo lo intuisca nel corso della rappresentazione intesa come percezione soggettiva. È piuttosto l’uomo ad esser guardato dall’ente, cioè dall’autoaprentesi all’esser-presente in esso raccolto. Guardato dall’ente, compreso e mantenuto nell’aperto dell’ente, sorretto da esso, coinvolto nei suoi contrasti e segnato dal suo dissidio: ecco l’essenza dell’uomo nel periodo della grandezza greca... Un senso del tutto diverso dal percepire greco è il moderno rappresentare, il cui significato è espresso perfettamente nella parola repraesentatio. Rappresentare, cioè porre-innanzi, significa in questo caso: portare innanzi a sé la semplice-presenza come qualcosa di contrapposto, rapportarla a sé, cioè al rappresentante e, in questo rapporto, ricondurla al soggetto come al principio di ogni misura. Quando ciò avviene, l’uomo si fa un’idea fissa dell’ente”.
54 Idem, La sentenza di Nietzsche..., cit., p. 225.
55 Af. 12, anno 1883.
56 Sulla natura cultuale e architettonica dell’arte (in quanto tale), cfr. E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, vol. II, Torino, Einaudi, 1976, p. 357. “La radice comune al sanscr. rta, ir. arta, lat. ars, artus, ritus, che designa l’“ordine” come adattamento armonico delle parti di un tutto tra loro...”.
57 W. Benjamin, Di alcuni motivi..., cit., p. 120.
58 In questa direzione sembra muoversi Heidegger, quando ad es. scrive: “Nell’interpretazione moderna dell’ente, la rappresentazione del valore ha la stessa importanza del sistema. Accade infatti che là dove l’ente sia divenuto oggetto della rappresentazione, perda in certo modo il suo essere. Anche se oscuramente e incertamente, questa perdita è avvertita e, perciò, rapidamente surrogata mediante l’attribuzione all’oggetto, e quindi all’ente inerpretato come oggetto, di un valore... Il valore sembra attestare che, rapportandosi ad esso, si persegue proprio ciò che è più degno di valore, quando in realtà esso non è che l’inutile e consunto sipario dietro cui si nasconde la riduzione dell’ente a oggettività” (M. Heidegger, L’epoca dell’immagine..., cit., p. 87 sgg., nota).
59 G. Agamben, Stanze, Torino, Einaudi, 1977, p. 52 (scolii).
60 Cfr. C. Baudelaire, Esposizione universale - 1855 - Belle arti, in Scritti sull’arte, Torino, Einaudi, 1981, p. 183.
61 Cfr. K. Marx, Il capitale, Roma, Editori Riuniti, 1989, p. 103.
62 C. Baudelaire, Il confiteor dell’artista, cit., p. 75. “E adesso la profondità del cielo mi costerna; la sua limpidezza m’esaspera. L’insensibilità del mare, l’immutabilità dello spettacolo, mi rivoltano... Ah, si deve eternamente soffrire, o fuggire eternamente la bellezza? Natura, incantatrice senza pietà, rivale sempre vittoriosa, lasciami! Smettila di tentare i miei desideri e il mio orgoglio! Lo studio della bellezza è un duello in cui l’artista grida di spavento prima di essere vinto”.
63 Ibidem.
64 W. Benjamin, Di alcuni motivi..., cit., p. 120 sg.
65 La ginestra, v. 51. In G. Leopardi, Canti, Milano, Rizzoli, 1974, p. 177.
66 E. Husserl, Logica formale e trascendentale, Bari, Laterza, 1966, p. 8. (Idem, Formale und transzendentale Logik, Tubingen, Max Niemeyer Verlag, 1981, p. 5).
67 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., p. 11.
68 M. Heidegger, Che cosa significa pensare?, cit., vol. I, p. 77 sg.
69 Cfr. M. Proust, Alla ricerca..., cit., vol. VII, p. 253: “In Baudelaire, infine, tali reminiscenze, ancor più numerose, sono evidentemente meno fortuite e, di conseguenza, a mio parere, decisive. Il poeta stesso, con maggior scelta e abbandono, cerca di proposito, nell’odore d’una donna, per esempio, della sua chioma e del suo seno, le analogie ispiratrici che gli rievocheranno «l’azzurro del cielo immenso e circolare» o «un porto pieno di fiamme e di navi»”.
70 Cfr. W. Benjamin, Di alcuni motivi..., cit., p. 97: “In balia dello spavento, Baudelaire non è alieno dal provocarlo a sua volta. Vallès riferisce del gioco eccentrico dei suoi lineamenti; Pontmartin osserva, in un ritratto di Nargeot, l’espressione estraniata del suo volto; Claudel indugia sull’accento tagliente di cui si serviva nella conversazione; Gautier parla degli stacchi nel suo modo di declamare; Nadar descrive la sua andatura spezzata”.
71 Cfr. G. Agamben, L’uomo senza contenuto, Macerata, Quodlibet, 1994. In particolare cap. X: L’angelo malinconico, p. 157 sgg.
72 F. Kafka, Il silenzio delle sirene, in Schizzi - Parabole - Aforismi, Milano, Mursia, 1983, p. 139. Kafka poteva dubitare che Ulisse (“che non pensava altro che a cera e catene”), non avesse notato il silenzio delle sirene. E però aggiunge (nella sua solita appendice): “Del resto, ancora un’appendice viene tramandata in aggiunta a questa leggenda. Ulisse, si dice, fu così scaltro, fu una tale volpe, che neppure la dea del destino riuscì a penetrare nelle pieghe più segrete del suo animo. Forse, sebbene questo non sia più accessibile ad un intelletto umano, egli ha veramente notato che le sirene tacevano, e, per così dire a guisa di scudo, ha opposto a loro, e agli dei, la commedia di cui abbiamo narrato”.
73 Cfr. W. Benjamin, Per un ritratto di Proust, in Ombre cortoe, cit., p. 360. “La caratteristica di Proust non è l’umorismo ma la comicità; in lui il riso non solleva il mondo ma lo scaraventa a terra. Col pericolo che vada in pezzi, di fronte ai quali scoppierà egli stesso in lacrime. E vanno effettivamente in pezzi l’unità della famiglia e della persona, della morale sessuale e del decoro sociale. Le pretese della borghesia vanno in pezzi nel riso. La sua via di scampo, la riassimilazione da parte della nobiltà, è il tema sociologico dell’opera”.
74 Idem, Teoria della conoscenza e del progresso, in Parigi capitale del XIX secolo, Torino, Einaudi, 1986, p. 615.
75 I. Kant, Critica della ragion pura, Bari, Laterza, 1985, p. 629.
76 W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco..., cit., p. 11.
77 Ibidem, p. 10.
78 Ibidem p. 9.
79 Ibidem, p. 25
80 “A meno che, scrive Kant, non si voglia interamente prescindere dal senso della parola, pel quale dimostrare (ostendere, exhibere) significa esibire il proprio concetto nell’intuizione (o con prove o anche in una semplice definizione)”. I. Kant., Critica del giudizio, Bari, Laterza, 1982, p. 206. Per quanto infatti la realtà rappresentata nei concetti puri dell’intelletto possa essere rappresentata intuitivamente a priori (sulla base dell’intuizione pura del tempo), con ciò noi non abbiamo alcuna prova della realtà oggettiva del concetto che sia apodittica ovv. intuitiva, ed anzi questa è data solo a posteriori.

81 W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, cit., p. 48.





























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