FEDERICA CHISALÉ, NICOLA
BUCCI
IL
SILENZIO DELLE SIRENE
PER UNA
CRITICA
DELL’ATTO
DI CREAZIONE
EDIZIONI
MASNATA
GENOVA
SOMMARIO
Federica Chisalé
Macchine da ispirazione p. 7
Nicola Bucci
Immagini della fatticità p. 35
Colpire il tipo di
attività... p. 93
©
Edizioni Masnata - Genova, 1995.
Tutti
i diritti riservati.
A
GAETANO SABATINO
Pour
soulever un poids si lourd,
Sisiphe,
il faudrait ton courage!
Bien
qu’on ait du coeur à l’ouvrage,
L’Art
est long et le temps est court.
Charles
Baudelaire (Les fleurs
du mal, 1857)
MACCHINE
DA ISPIRAZIONE
Federica Chisalé
1. Inciampando nel cortile dei
Guermantes sul selciato sconnesso, nel tentativo di sottrarsi a
un’automobile che stava per investirlo, il narratore della
Recherche, s’imbatte, come egli stesso dice, “in un
frammento di tempo allo stato puro”1,
tutte le sensazioni connesse ad uno stesso essere stato in bilico tra
due ciottoli: “un azzurro profondo... impressioni di freschezza,
d’abbagliante luce”2,
l’immagine integrale di Venezia, fino ad allora resistente (sorda)
ad ogni tentativo di evocazione, questo “già stato”, ora, nella
sua intensità reale, è presente: un’impressione così
disorientante da fargli dubitare, per un attimo, in che momento del
tempo si trovasse (come un’“interferenza”, dice, fra il
passato e il presente)3.
Questo incidente (o serie di incidenti) provoca in lui (nel
narratore) un’inaudita impressione di felicità, oltre che la
certezza, finalmente, di poter porre mano all’opera della sua vita
(l’opera d’arte che si apprestava ormai ad iniziare), dissipa in
lui ogni dubbio sopra la consistenza della sue doti letterarie e
della stessa letteratura, lo mette in uno stato che, poco prima,
sembrava affatto impossibile.
Perché tutti gli sforzi fatti fino
allora per evocare dal profondo del tempo un’immagine che fosse
bella, tanto da esigere di essere fermata (di essere
vera), erano stati vani. (Per questo si trovava così in pensiero, da
farsi quasi “investire”).
E
quasi subito la ravvisai: era Venezia, di cui nulla mi avevano mai
detto i miei sforzi per descriverla e le pretese istantanee della mia
memoria (e che la sensazione da me provata, un giorno, su due lastre
diseguali del battistero di San Marco, mi aveva restituito, insieme a
tutte le altre sensazioni connesse a lei in quel giorno, e rimaste in
attesa, al loro posto, nella schiera dei giorni dimenticati, donde
d’improvviso il caso le aveva tratte imperiosamente4).
Le immagini di Venezia che il
narratore ha sempre a sua disposizione e, in generale, tutte le
immagini del passato che egli può richiamare alla mente quando
vuole, sono spettrali (eidola). È la coscienza che ha inferto
loro la ferita, da cui il sangue e la vita insieme si sono involati.
Niente di meno infatti che la cancellazione della traccia che
l’impressione viva del presente — la “sensazione del presente”
— lascia nella memoria (il livido, il segno del trauma) è l’atto
della presa di coscienza che la traduce in ricordo (come l’ossigeno
“brucia” la vita brulicante nella ferita).
Ma questa traccia serbava intatta la
potenza di un’esperienza integrale (singolare, differenziata,
irripetibile), laddove invece il ricordo — neutralizzata
l’impressione che lo animava — ha più soltanto ormai la
consistenza di un fantasma.
Sull’enorme
divario tra l’impressione reale che abbiamo avuta di una cosa e
l’impressione fattizia che ce ne formiamo, allorché tentiamo
volutamente di rappresentarcela, non mi soffermai: ricordando molto
bene con quale relativa indifferenza Swann aveva potuto parlare dei
giorni in cui era amato, perché sotto questa frase egli scorgeva
qualcosa di diverso da essi, e il subitaneo dolore che gli aveva
causato invece la piccola frase di Vinteuil restituendogli quei
giorni stessi, quali li aveva allora vissuti, comprendevo chiaramente
che ciò che la sensazione del lastricato ineguale... aveva (...)
risvegliato in me non aveva nessun rapporto con quanto cercavo spesso
di ricordare di Venezia... col solo aiuto di una memoria uniforme; e
capivo come la vita possa essere giudicata mediocre, anche se in
certi momenti sia apparsa così bella, perché la si giudica (e
deprezza) in base a tutt’altra cosa che lei stessa, a immagini che
di lei nulla conservano5.
La neutralizzazione delle impressioni
avviene come “presa di coscienza”. La coscienza capta gli
stimoli, li “para” (come uno scudo levato contro una pioggia di
frecce) e li “registra” (questi proietti resi inoffensivi), per
poi dimenticarli nel polveroso archivio della memoria, dalle cui
stanze possiamo trarli (è vero) a piacimento, senza trovarvi mai
però la vita, di cui pure, lo sappiamo, erano fatti. (Tra questa
specie di ricordi e la vita che era, si instaura una terribile
somiglianza, paragonabile addirittura a quella che ci ossessiona
quando affannosamente andiamo in cerca dei tratti familiari della
persona cara nella “maschera di cera” del suo cadavere).
Col mero ausilio delle pallottole
“spuntate” dall’impatto con la superficie della coscienza è
naturale che il narratore “non si senta” di aggredire il ricordo
di Combray, della sua infanzia (tutto ciò che rimane di Combray
oltre all’angoscia — e questa sola sì indelebilmente impressa —
connessa all’ora e al rito di “andare a letto”).
A
dire il vero, a chi m’avesse interrogato avrei potuto rispondere
che Combray racchiudeva anche altre cose ed esisteva in altre ore. Ma
poiché quel che avrei ricordato mi sarebbe stato offerto soltanto
dalla memoria volontaria, la memoria dell’intelligenza, e poiché
le notizie che essa dà sul passato non ne serbano nulla, non avrei
avuto voglia di pensare a quel resto di Combray. Tutto questo, in
verità, era morto per me6.
Nel contemplare la collezione dei
ricordi che gli è fornita dalla mémoire de l’intelligence,
il narratore è preso dallo sconforto. Con questo materiale infatti
egli potrebbe fare eventualmente un resoconto oggettivo di quanto gli
è avvenuto, non mai però il racconto della sua vita. Perché
l’evento non è potuto penetrare in lui (nella sua carne) fino a
farsi esperienza, ma è stato posto invece di fronte a lui in quanto
mero oggetto di conoscenza.
L’ipotesi su esposta (che Benjamin
riprende da Freud) secondo cui la coscienza: “sterilizzerebbe
questo evento per l’esperienza poetica, incorporandolo direttamente
nell’inventario del ricordo consapevole”7,
spiega così la genesi delle notizie sul passato che non conservano
nulla di esso. Di fronte al loro triste catalogo, non resta al
narratore che la forza per questa lieve protesta: “Eppure ho visto,
dice, nella mia vita molte belle cose”8.
Benjamin si domanda9:
ma è veramente così “naturale” che sia affidato al caso, se un
uomo giunge ad avere un’immagine della sua vita, o a non averla
mai, benché da ciò dipenda, a ben vedere, la stessa possibilità di
esserne “il narratore”?
Giacciono così: “mutati”, nel
cimitero ben ordinato della memoria, tutti i ricordi dell’esperienza
vissuta “espressamente, consapevolmente” (“l’esperienza
defunta, dice Benjamin, che si definisce, eufemisticamente,
«esperienza vissuta»”10),
mute, pallide immagini di un tempo cui non possiamo ridestarci,
restìo ad ogni interferenza col presente (restìo a “fare
scintille”), non perché esso sia così “distante”, da non
poter più essere strappato a quell’oblio cui appartiene ormai, ma
per il fatto che, diversamente, tra questo tempo e il tempo presente,
non sono state “mantenute le distanze” (la profondità, l’oblio).
Questo passato è così immanente da dare quasi la nausea.
Sì,
se il ricordo, grazie all’oblio, non ha potuto contrarre nessun
legame, gettare nessun ponte tra sé e il momento presente: se è
rimasto nel suo proprio luogo, alla sua propria data, se ha
conservato le distanze... esso ci fa di colpo respirare un’aria
nuova — nuova proprio perché è un’aria che s’è già
respirata in passato — quell’aria più pura che invano i poeti
hanno tentato di far regnare in Paradiso, e che non potrebbe darci
questa sensazione profonda di rinovellamento se non fosse già stata
respirata, perché i veri paradisi sono i paradisi che abbiamo
perduti11.
2. Se la coscienza è distruttiva
della memoria (si sostituisce all’impronta mnemonica) ciò è per
riparare (difendere) quell’ente che noi stessi siamo, dal
suo essere così costantemente esposto alla natura percettibile di
tutte le cose.
Quanto la “sensazione del presente”
costituisca una minaccia per noi, lo si può ricavare a sufficienza
ascoltando Baudelaire, quando “a suo modo” dice:
Que
les fins de journées d’automne son pénétrantes! Ah! pénétrantes
jusqu’a la douleur! car il est de certaines sensations délicieuses
dont la vague n’exclut pas l’intensité; et il n’est pas de
pointe plus acérée que celle de l’Infini12.
La “punta dell’Infinito” è
certamente la più acuminata, e tuttavia la perdita di una sofferenza
così dolce potrebbe essere anche più dolorosa. Perché la
percettibilità, di cui abbiamo parlato — come della
minaccia che ci viene dal nostro essere così situati in mezzo
all’ente (con una comprensione del suo essere) —, non è
nient’altro che quella dell’aura13,
il manto splendido (intenso) che circonda le cose per il semplice
fatto che sono presenti adesso, sono vive (il manto “irto di
aculei”!) il manto delle cose che “si incendia” quando le cose
(avvolte così splendidamente nella loro apparenza), accolgono la
nostra interpellanza, e ad uno sguardo corrispondono con uno
sguardo14.
È come un’indeterminarsi del
contorno, un fremito che corre lungo il bordo della presenza, sul
limite del bordo (alone). È il rosseggiare della rosa (il coseggiare
della cosa), l’essenza della cosa nel suo significato verbale,
tremito della presenza. Baudelaire parla di un surplus che inerisce
al presente, per il fatto stesso di essere presente; Benjamin invece
de l’“apparizione irripetibile di una lontananza, per quanto
questa possa essere vicina”15.
Sopra il sonetto Correspondances
di Baudelaire, dove il poeta fa assolutamente l’esperienza
dell’aura, Benjamin scrive: “Chi è guardato o si crede guardato
alza gli occhi. Avvertire l’aura di una cosa significa dotarla
della capacità di guardare”. E poi aggiunge: “Ciò è confermato
dai reperti della mémoire involontaire”16.
Così infatti le immagini —
balenanti, vivide — del passato, che si presentano al Narratore da
sé (spontaneamente) nell’impressione suscitata da un oggetto, o
dalla sensazione di un oggetto, fuori di lui — e che
sussistono per quel tanto e fin tanto che egli resiste in
esse, nell’impressione che lo attraversa, senza intenzione
(appena egli le tematizza esplicitamente, esse non sono più) —, le
immagini, dicevo, balenanti e vivide, apporto della mémoire
involontaire, sono l’“aura” di quell’oggetto (o, se si
vuole, l’indice della sua “pericolosità”).
È proprio qui l’oggetto “nello
stato di somiglianza”17
che, col suo sguardo, può trascinare lontano il poeta, nell’ora in
cui l’oggetto appare come non è “mai stato”. Ma esso non
sopporta l’inquisizione dell’intelletto (Verstand), che lo
interpella unicamente e solo per svelarne il “segreto”.
Preso infatti una volta quell’oggetto
sotto la condizione del concetto (Begriff), della splendida
veste, che tanto ci piaceva, ne è nulla, e nulla anche di ciò che
quella veste lasciava affatto apparire. Ovvero: non l’oggetto sotto
la veste — ché anzi esso sussiste in quanto mero oggetto
dell’intelletto — ma: “ciò che è indefinibile”18
nell’oggetto, il suo “segreto”, il bello.
Si dà a vedere qui la peculiare
concezione benjaminiana della verità, intesa come un essere
“aintenzionale”. Difficilmente questa definizione potrà mai
essergli contestata! Non vi è infatti criterio più sicuro, per il
riconoscimento dell’opera d’arte, della completa totale
estinzione in essa (nel suo “gelo”) dell’intenzione (Meinung)
dell’autore (al cui livello di “estraneazione” anche la
critica deve sollevarsi19).
Perché non può apparire bello, quanto semmai sublime (al di là del
bello) ciò che partecipa dell’intenzione di un creatore, ed è
pertanto vana la tentazione di pervenire alla verità del bello, al
“contenuto” dunque del bello20,
tramite l’inserimento a forza dentro un piano (un progetto, un
voler dire) dell’istanza che l’ha reso visibile
(foss’anche il piano prestabilito della salvezza).
La
verità non entra mai a far parte di una relazione, tanto meno di una
relazione intenzionale. L’oggetto della conoscenza, in quanto
oggetto determinato nell’intenzione concettuale, non è la verità.
La verità è un essere aintenzionale formato di idee. Il
comportamento che le si addice è perciò, non un intenzionare nel
conoscere, bensì un risolversi e uno scomparire in essa. La verità
è la morte dell’intenzione. Precisamente questo può essere il
significato della favola dell’immagine velata, a Sais, la quale,
mostrata, provoca la distruzione di colui che riteneva di poter
interrogare la verità21.
Benjamin chiama “privo di
espressione” (ausdruckslos) un tale gesto che “raggela”
(l’“istanza critica”) e osserva come il concetto hölderliniano
di “sobrietà occidentale, giunonica”22
non sia che un altro modo per dire la stessa cosa23.
Solo dunque velato dalla “bella
apparenza” il bello appare (come: “ciò che necessariamente è
più velato”). “Disvelato, scrive Benjamin, esso si rivelerebbe
infinitamente inappariscente”. Ed aggiunge: “Su ciò si fonda
l’antichissima idea che nel disvelamento il velato si trasforma,
che esso rimarrà ‘eguale a se stesso’ solo sotto l’involucro”24.
Non è pertanto còmpito dell’artista
sottoporre il “segreto” della presenza alla chiara luce della
coscienza, in vista della sua decifrazione, bensì fissare
nell’istante il movimento intrinseco alla “bella apparenza”
(renderlo eterno), tramite un gesto che, con la sua autorità
(l’autorità del vero), ne interrompa il venire e l’andare:
“onde appaia così — scriveva Hölderlin a proposito
dell’interruzione del ritmo nella tragedia — non più questo
avvicendarsi, ma l’immagine, la rappresentazione stessa”25.
3. A questo “canto delle sirene”
che sale dal presente — cui tutti sono esposti, ma il poeta di più,
nel suo “naufragio” —, Ulisse contrappose “cera e catene”,
perché sapeva che il suo fascino era mortale (la maga Circe gli
aveva rivelato la verità sul conto delle Sirene, così come egli la
riferisce ai compagni:
Chi
ignaro approda e ascolta la voce / delle Sirene, mai più la sposa e
i piccoli figli, / tornato a casa, / festosi l’attorniano, / ma le
Sirene col canto armonioso lo stregano, / sedute sul prato: pullula
in giro la riva di scheletri / umani marcenti / sull’ossa le carni
si disfano26).
Perché la “sensazione del
presente”, questo divino fremito, quest’aura che circonda le
cose, è come un brivido che coglie tutto l’ente che “adesso” è
(presente) e “adesso”... non è più (questa fragilità della
presenza, soggetta al male e alla morte).
Forse nessuno mai come Baudelaire ha
visto la bellezza nello splendore della carne in putrefazione27.
Forse nessuno mai come Leopardi ha cantato il cieco brulichìo del
vivente28.
La tradizione metafisica occidentale,
che riconduce questa lacerazione che vige nel cuore stesso della
presenza, alla trasparenza di un rapporto tra ciò che è veramente
(l’ontos on, l’idea, il paradigma) e ciò che,
invece, è più niente che ente (il fenomeno, la copia), si manifesta
infine animata — altro che dall’istanza di “salvare i fenomeni”
— da ciò che Nietzsche ha chiamato: lo spirito di vendetta contro
il tempo e il suo “così fu”29.
E infatti, in ogni istanza di
salvazione del sensibile nel sovrasensibile — questo mondo “di
qua”, mutevole e irreale, che riceve il suo senso e il suo essere
da un al di là considerato come il “mondo vero” — si dà
a vedere ormai solo la volontà dell’uomo di abbassare (svilire) il
temporale fino al non-essere: Perché la sofferenza della volontà
per il passare arriva fino al punto di volere che il passare “passi”,
posto che, intanto, non è degno di essere (come l’eterno che è il
vero essere).
Ciò viene in luce soltanto quando la
tradizione greco-occidentale si trova a fare i conti con la
catastrofe che l’uomo folle annuncia nel passo n. 125 de La gaia
scienza (quel giorno in cui, si narra, l’uomo folle girò per
molte chiese recitando il suo Requiem aeternam Deo 30).
E infatti: “Dio è morto! Dio resta
morto!”, e la creatura affonda nella sua infondatezza, perché
l’eterno, il sole della Terra, non dispensa più vita alcuna.
“Che mai facemmo”, gridava l’uomo
folle come un pazzo una mattina in mezzo al mercato: “Che
mai facemmo a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole?
Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci muoviamo noi? Via da tutti
i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di
fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso?
Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita
su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non seguita a
venire notte, sempre più notte?”31
Con la caduta del mondo intelligibile
cade anche il mondo sensibile, e questa stessa distinzione — fra il
sensibile (aistheton) e l’intelligibile (noeton) —
perde ogni senso. Tutto precipita vertiginosamente e si inabissa nel
Maelström prodigioso del non senso. Tutti i valori e gli
ideali che, fino a quel giorno, avevano potuto costituire il fine
della vita terrena, vanno in rovina — venuto meno il luogo del loro
proprio consistere (la stessa mente di Dio).
Recita la parodia nietzschiana al
Prologo del Vangelo di Giovanni: “All’inizio era il
non senso”.
Nel noto saggio su Nietzsche che
compare nella raccolta Sentieri interrotti Heidegger definisce
“cieco” il tentativo dell’uomo di sottrarsi al dominio
dell’insensato (sinnlos) — cui appartiene ormai la stessa
distinzione fra il sensibile e l’intelligibile — tramite un “mero
conferimento di senso” (Sinngebung).
Scrive:
La
destituzione del soprasensibile sopprime anche il puro sensibile, e
perciò la loro distinzione. La destituzione del soprasensibile
sfocia in un “né... né...” rispetto alla distinzione di
sensibile (aistheton)
e non-sensibile (noeton).
La destituzione si conclude nell’insensato (sinnlos).
Tuttavia essa rimane il presupposto inavvertito e indispensabile del
cieco tentativo di sottrarsi all’insensato attraverso un mero
conferimento di senso (Sinn-gebung)32.
La donazione di senso (Sinngebung)
di cui parla Heidegger non è il virile assenso al fatto che
nonostante tutto — nonostante il male ontologico irredimibile —:
l’essere sia piuttosto che il niente (così potremmo
interpretare anche lo ja-sagen nietzschiano33).
La donazione di senso (Sinngebung) ha a che fare piuttosto con
una nuova posizione di valori, che lascia presupposta l’antica e
ormai svuotata distinzione fra il sensibile e l’intelligibile (la
quale dunque vige ancora, pur senza avere più significato).
Con la caduta del mondo intelligibile,
cade anche il mondo sensibile... Alla caduta di tutti i valori non
corrisponde tuttavia, come dovrebbe, la fine della dimensione del
valore, ed anzi la sua crescita ipertrofica è, oggigiorno, sotto gli
occhi di tutti. Ciò non dipende forse dal caso o dal destino, quanto
piuttosto dalla “brutta piega” che hanno preso, ancora una volta,
le cose. Perché i dominatori della Terra, che non potevano certo
istallarsi al posto vuoto di Dio, né d’altra parte “rinunciare a
tutto” (tutto ciò che, da generazioni, “in nome di Dio”, erano
soliti fare per la conservazione e il potenziamento del loro proprio
dominio) — temendo di prendere stanza in quel non-luogo,
quell’u-topia che tutti quanti siamo finché siamo — si
sono aperti: “un altro posto metafisicamente corrispondente, che
non è identico né alla regione dell’essenza divina né
all’essenza dell’uomo”34.
Non è qui il luogo di argomentare la
formazione del dominio della soggettività moderna, così come
è venuta a configurarsi dal giorno in cui Cartesio fece coincidere
in un punto archimedico astratto detto ego cogito, il soggetto
dell’esperienza e quello della scienza35.
Possiamo dire, tuttavia, che nella
fase del “nichilismo compiuto”, la volontà invidiosa procede ad
un’estrema posizione di valori, che è anche il “rovesciamento”
di tutti i valori precedenti36.
Perché i nuovi valori non sostituiscono gli antichi nella regione
vuota del soprasensibile, ma altro (completamente) è il loro
principio e la regione del loro proprio consistere, ovverossia: il
vivente come “centro della volontà di potenza” (centro di
dominio)37.
Possiamo immaginare la volontà di
potenza — in cui consiste, secondo Nietzsche, l’essenza stessa
del vivente — come una specie di “istinto di conservazione” che
muove ogni “soggetto” conformemente al grado di coscienza che gli
è proprio (tanto più, quanto meno la sua coscienza è “assopita”),
non fosse che la volontà di potenza non vuole solo la
“conservazione” della vita, ma anche e innanzitutto il suo
“potenziamento”, vuole cioè le condizioni della
conservazione-accrescimento della propria potenza38.
La sua “morale” è interamente
contenuta in un supremo giudizio di valore, in cui si afferma:
L’arte
vale di più della verità39.
4. Poiché la volontà di potenza non
è una “determinazione reale” della cosa, ma, a ben vedere, il
suo “essere” stesso, perciò ciascuna cosa in quanto è,
ovvero ontologicamente, si costituisce come centro della
volontà di potenza.
È nella “logica” della volontà
di potenza, che questi centri non restino isolati, bensì, per
aumentare appunto la loro potenza, si uniscano a formare delle
“concentrazioni”. A ciò li sprona l’arte, “il grande
stimulans della vita”40.
L’arte è lo sprone della volontà
di potenza. In quanto aizza la volontà a volere “oltre se stessa”
— ad aumentare cioè, oltre al bisogno, la sua potenza di
porre-valori —, per questo l’arte è il “supremo valore”. È
infatti un “valore” qualunque parte del corpo senza vita
della tradizione, serva, di volta in volta, al fine della
conservazione-accrescimento del vivente41
in quanto “centro della volontà di potenza” (centro di dominio).
Come scriveva Nietzsche:
Il
valore è essenzialmente il punto di vista per il rafforzamento o
l’indebolimento di questi centri di dominio42.
Per questo l’arte è il “supremo
valore”, in quanto aizza la volontà di potenza a concentrare in sé
ogni potenza di porre-valori — ogni “concentrazione di potenza”
a spese di ogni altra — mediante un esercizio-esibizione di
potenza, quale ad esempio (e innanzitutto) la guerra. È infatti
“nella logica” della volontà di potenza che ciascun centro o
concentrazione della volontà di potenza sia d’ostacolo all’altro/a
quanto al raggiungimento di un medesimo fine (che definiremo, senza
esitazioni: “egoistico”).
Scrive Nietzsche:
I
valori e il loro mutamento sono in rapporto all’accrescimento di
potenza di coloro che li pongono43.
La guerra è un grande dispendio di
potenza, un sacrificio di uomini e di beni, su cui, di volta in
volta, i vincitori fondano il loro dominio. Nell’era infatti in
cui il dettato della tradizione è divenuto “lettera morta” la
guerra serve almeno ai vincitori per avere qualcosa da celebrare.
La vittoria di un centro di dominio
non implica soltanto un ampliamento del dominio del vincitore44,
bensì anche l’imporsi del suo punto di vista determinato, che
tende a far valere come “valori universali” le condizioni della
conservazione-accrescimento del suo proprio dominio (piuttosto che...
di un’altro).
Il movimento di concentrazione della
potenza, che è un “andare da una guerra e l’altra”, procede
poi fino al momento in cui, su tutto l’ente, non domina che un solo
“punto di vista”, il quale in sé concentra la maggior parte
della potenza. Ciò non significa che non ci sono più guerre, ma
che le guerre, ad un certo momento, non possono servire che al
consolidamento di un solo punto di vista dominante.
Quando su tutto l’ente è dominante
un solo punto di vista, l’uomo si fa un’“idea fissa”
dell’ente, l’idea cioè che tutto quanto esiste “sotto il
sole”, nonché il corpo integrale della tradizione, valga e possa
essere utilizzato per quel tanto e fin tanto che (gli) serve per
soddisfare gli arbitri della (sua) essenza volenterosa
(“pacificata” ormai, benché sempre “sfrenata”), nell’era
del dominio di un solo punto di vista45.
Nel brano intitolato: “Delle
tarantole” Zarathustra illustra la sua speranza del mondo a venire.
“Giacché: che l’uomo sia redento dalla vendetta — questo è
per me il ponte verso la suprema speranza e un arcobaleno dopo lunghe
tempeste”46.
La volontà redenta dalla vendetta
dimette la sua avversione contro il passare. Essa non vuole più che
il passare “passi” — che il contingente “trapassi” in
quanto tale, per essere “salvato” nell’eterno. La volontà muta
il suo no! in un sì! Essa afferma il passare in quanto tale, nega
che esso sia niente, e questo proprio nell’istante più
atroce, quando esso appare nella luce (allucinante) della necessità
dell’assenza di ogni necessità.
“Vuoi tu questo ancora una volta e
ancora innumerevoli volte?”47
E’ alla struttura della ripetizione
che Benjamin riconduce il pensiero nietzschiano dell’“eterno
ritorno”, all’interno di una costellazione di concetti che ha al
suo centro il gioco infantile. Nel gioco agisce infatti
irresistibilemente l’istanza dell’“ancora una volta”, la
freudiana “coazione a ripetere”, non però come ripetizione
scimmiesca di un fatto presupposto, bensì ogni volta, proprio nella
ripetizione, come se fosse la prima volta: la libera invenzione di un
gesto.
“Il
bambino si crea tutto ex
novo, ricomincia
ancora una volta da capo. Questa è forse la radice più profonda del
doppio significato del tedesco Spielen:
la ripetizione della stessa cosa è forse l’elemento comune ai due
sensi della parola. Non è già un “fare come se”, ma “un fare
sempre di nuovo”, la trasformazione dell’esperienza più
sconvolgente in un’abitudine, ciò che costituisce l’essenza del
gioco”48.
5. Fra i Petits poemes en prose
di Baudelaire, ve n’è uno intitolato Perte d’auréole 49.
Vi si racconta il caso di un poeta che — nel passare, saltellando
nella mota, da un marciapiede all’altro: “attraverso questo caos
mobile dove la morte arriva galoppando da tutte le parti”50
— perde, in un movimento brusco, la sua aureola, un fatto questo
non privo di conseguenze piacevoli per l’infortunato, per
quanto, a prima vista, di segno opposto (giacché si tratta qui,
piuttosto, della perdita di qualcosa che del suo acquisto. In Proust
appunto: “il tempo ritrovato”, in Baudelaire: “la perdita
d’aureola”).
“Non ho avuto il coraggio di
raccattarla”, spiega il poeta all’amico, così stupito di
incontrare lui “il bevitor di quintessenza... il mangiator
d’ambrosia” in un postaccio. “Ho ritenuto meno
spiacevole perdere le mie insegne, che non farmi rompere l’ossa. E
poi, mi sono detto, non ogni male viene per nuocere. Ora posso girare
in incognito, fare delle bassezze e darmi alla crapula come i
semplici mortali”51.
“Assolutamente no!”, risponde poi
all’amico che vivamente gli consiglia di denunciare la scomparsa
dell’aureola: “Mi trovo bene qui. Voi, voi solo m’avete
riconosciuto. Del resto la dignità m’è venuta a noia. Poi, mi
piace il pensiero che qualche poetastro la raccatterà e se ne
cingerà sfacciatamente. Far felice uno, che piacere! e soprattutto,
felice uno che mi farà ridere! Pensate a X o a Z! Sarà proprio
buffo no?”52.
Nel gesto di lasciare le sue insegne
in mezzo al fango della strada, Baudelaire mostra di valutare
esattamente la catastrofe da cui, come moderno, è stato colpito (in
questa definitività della rinuncia).
E infatti è solo nel reciproco
guardarsi tra la cosa e il poeta, che avviene ch’essa abbia
un’aura, ed egli... egli un’aureola! Dal momento però che le
cose sono guardate ormai esclusivamente dal punto di vista (stretto)
del valore, esse hanno smesso irreparabilmente di guardarci53!
Perché il valore, in cui consiste ormai la loro essenza, non è che
il prodotto di una soggettività sovrana separata che si vuole come
ponente-valori, come cioè ponente (di volta in volta) le condizioni
e garanzie della conservazione-accrescimento della sua stessa potenza
di porre-valori: “così da giustificarsi costantemente, e da essere
così giustizia”54;
vuole l’eterno ritorno del medesimo, l’eterna vittoria dei
vincitori, in una dimensione di autoreferenza assoluta.
Diritto
= Volontà di eternare un mutevole rapporto di forza. La
soddisfazione in esso implicita ne è il presupposto. Tutto ciò che
è degno di venerazione partecipa a far sì che il diritto appaia
come l’eterno55.
Il risultato è che le cose diventano
cieche e il poeta muto.
La perspicuità del giudizio di
Baudelaire sulla catastrofe della modernità, di cui abbiamo parlato,
non gli può derivare, secondo Benjamin, che dall’appropriazione di
ciò che in essa è andato irrimediabilmente perduto, vale a dire:
quegli elementi cultuali56
dell’esperienza che nel sonetto intitolato Correspondances
ancora: “celebrano le loro feste”57.
Potremmo chiederci: come avrà fatto
il pur divino Baudelaire ad appropriarsi di qualcosa che è andato
irreparabilmente perduto, giacché, quanto alla “perdita
dell’aura”, non vi può essere alcun dubbio che essa sia
realmente avvenuta? Chiediamo ancora. È solamente un caso,
una coincidenza, che nel momento in cui le cose perdono la loro aura,
l’uomo si affretti a conferire loro un valore? Non sarà forse il
valore un surrogato, un sostituto dell’aura58?
Scrive Agamben: “Tutto il sonetto
Correspondances può essere letto come una trascrizione delle
impressioni estraneatrici prodotte da una visita all’Esposizione
universale”59
(precisamente quella di Parigi60
del 1855).
Non dunque le opere della natura o
dell’arte ma la merce è quell’oggetto in “stato di
somiglianza” che trascina lontano il poeta, nell’ora in cui le
cose — ridotte ormai a “oggetti della rappresentazione” (a
materiale disponibile per la produzione, lo sfruttamento e il
calcolo) — hanno perduto irreparabilmente la loro aura (la capacità
di stupire).
La merce, infatti, non è la cosa
disincantata che si libera dalla sua “guaina cultuale” e si rende
perciò disponibile per la prassi politica, né però anche l’oggetto
nello “stato di indifferenza” (potremmo dire: la cosa in quanto
oggetto dell’intenzione concettuale), bensì qualcosa di ambiguo
che riproduce in sé l’antica distinzione fra il sensibile e
l’intelligibile, qualcosa di “sensibilmente sovrasensibile”.
A
prima vista, una merce
sembra una cosa triviale, ovvia. Dalla sua analisi risulta che è una
cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci
teologici. Finché è valore
d’uso, non c’è
nulla di misterioso in essa, sia che la si consideri dal punto di
vista che essa soddisfa, con le sue qualità, bisogni umani, sia che
riceva tali qualità soltanto come prodotto
di lavoro umano. È chiaro come la luce del sole che l’uomo, con la
sua attività, cambia in maniera utile a se stesso le forme dei
materiali naturali. P. es. quando se ne fa un tavolo, la forma del
legno viene trasformata. Ciò non di meno, il tavolo rimane legno,
cosa sensibile e ordinaria. Ma appena si presenta come merce,
il tavolo si trasforma in una cosa sensibilmente sovrasensibile. Non
solo sta coi piedi per terra, ma, di fronte a tutte le altre merci,
si mette a testa in giù, e sgomitola dalla sua testa di legno dei
grilli molto più mirabili che se cominciasse spontaneamente a
ballare61.
Nell’epoca in cui “avere una
sorpresa” è divenuto impossibile, Baudelaire approfitta dunque
della natura ambigua della merce — che fa apparire strano
(unheimlich) ciò che è più familiare (heimlich),
ovvero: un tavolo, un martello, l’oggetto d’uso insomma — per
provocarsi degli chocs come “motivi” dell’ispirazione.
Perciò nel suo confiteor Baudelaire descrive l’atto di
creazione come: “un duello in cui l’artista, prima di soccombere,
grida di spavento”62!
Possiamo dubitare infatti, a questo punto, che lo spavento sia
provocato in lui da un acuirsi di quella che egli chiama (ivi):
“punta dell’infinito”, piuttosto che dal rinnovarsi in lui
della certezza di non poter provare più una sensazione di quel tipo.
E quale “macchina poetante” egli diventa, in tale circostanza,
questo “autoannientantesi nulla”! Si tratta infatti di
liberare l’oggetto dalla sua nuova guaina, facendo esplodere per
così dire il potenziale di estraneazione che gli deriva dalla
perdita del suo valore d’uso, col riprodurre nell’opera d’arte
lo stesso processo che ha “caricato” l’oggetto d’uso di quel
suo potenziale (choc dello choc).
6. Che cosa dire, ora, di una
generazione che ha perduto la facoltà di avere la “sensazione del
presente” e, pertanto, ogni accesso alla mémoire involontaire?
Che cosa dire del verso di Baudelaire che dice questa cosa:
Le
Printemps adorable a perdu son odeur!
Come scriveva Kafka rivisitando la
leggenda omerica delle Sirene: “Ora però le sirene hanno un’arma
ancora più terribile del canto, ed è il loro silenzio”; perché
qualcuno forse al canto delle sirene avrebbe potuto ancora sfuggire
(benché non sia mai successo), e però mai nessuno al loro silenzio:
“Al sentimento di averle vinte con la propria forza, e all’orgoglio
che ne nasce e che tutto trascina con sé, niente di terreno può
resistere”63.
Si tratta di una forma estrema di
vigilanza della coscienza, quando nessuno stimolo (nessuna freccia)
riesce ad eludere più la sorveglianza (scudo) della coscienza e a
penetrare in noi come “potenza” di un’esperienza integrale (di
un’ora in cui il passato appare come non è “mai stato”),
ma tutto resta alla superficie.
Benjamin scrive: “nello spleen
la coscienza del tempo è acuita in modo soprannaturale; ogni secondo
trova la coscienza pronta a parare il suo colpo”64.
Lo spleen è il sentimento del
sempre-uguale che insorge di fronte ad una rappresentazione della
storia come la marcia della specie “homo sapiens”
attraverso il tempo lineare e continuo. A tale rappresentazione
l’uomo moderno è indotto dalla fede nelle: “magnifiche sorti e
progressive”65:
“Questa grandiosa fede, scrive Husserl, che fu già il sostituto
della fede religiosa, la fede che la scienza conduca alla saggezza —
a una conoscenza di sé veramente razionale, a una conoscenza
razionale del mondo e di Dio e, attraverso di essa, ad una vita
veramente degna e sempre perfettibile, una vita vissuta nella
felicità, nella soddisfazione, nel benessere...”66
(questa fede “dogmatica” della ragione, contro cui la filosofia
di Benjamin rivolge l’arma affilata della critica, al fine
unicamente della sua distruzione).
Non è difficile capire che la
felicità non è la calma piatta e cimiteriale che si instaura
nell’era del dominio di un solo “punto di vista” (di cui il
“pluralismo delle opinioni” è l’altra faccia di Giano), quando
l’uomo alienato si fa un’“idea fissa” dell’ente, l’idea
che l’ente, divenuto oggetto, sia interamente a sua disposizione da
sfruttare (ne è un esempio lo sfruttamento intensivo della Natura,
compresa unicamente come fondo di materiale per la produzione, lo
sfruttamento e il calcolo), ma la felicità è il balenare improvviso
della verità “qui e ora”, che “fa saltare” il continuum
della storia.
Perché la fede nel progresso è una
malafede che predica il cambiamento a condizione che tutto
resti com’era. È infatti “dato per scontato” che il dominio
presente, per quanto ancora imperfetto, sia, ad ogni modo, il
migliore possibile e che poi il resto piano piano verrà “su questa
strada” (verrà, per così dire, “naturalmente”). Questo
dichiara il progressista: l’“ultimo uomo”, “il più
spregevole”, ed ammicca.
Ecco!
io vi mostro l’ultimo
uomo. / “Che cos’è
amore? E creazione? E anelito? E stella?” — così domanda
l’ultimo uomo e ammicca. / La terra allora sarà diventata piccola
e su di essa saltellerà l’ultimo uomo, quegli che tutto
rimpicciolisce. La sua genia è indistruttibile, come la pulce di
terra; l’ultimo uomo campa più a lungo di tutti. / “Noi abbiamo
inventato la felicità” — dicono gli ultimi uomini e ammiccano67.
Come nelle correspondances si
stabiliva fra l’uomo e le cose un tipo di rapporto quale
generalmente l’uomo crede di intrattenere solo coi suoi simili,
ovvero appunto: lo “scambio dello sguardo”, così
l’“ammiccamento” dell’“ultimo uomo” è altresì un
rapporto che si instaura anche fra l’uomo e le cose, quando le
cose, ridotte ormai ad oggetti porta-valore, splendenti del falso
splendore della merce, dal canto in cui si trovano gettate, alla
mercé dell’arbitrio dell’uomo, lo adocchiano, ogni tanto,
sinistramente. Contro di lui, esse si volgeranno un giorno
“sferragliando”. Ma, nel frattempo, si limitano a sbirciarlo di
sottecchi, e ad ammiccare alla sua volta sinistramente (quasi a voler
far presagire qualcosa).
“Ammiccare”
ha a che fare con “scintillare”, “splendere”, “apparire”.
Ammiccare significa: darsi una certa aria e far sì che qualcosa
appaia in modo tale che ci si aspetti un esito positivo, pur essendo
reciprocamente d’accordo, anche senza una formulazione esplicita,
che non si terrà in seguito alcun conto di queste apparenze.
Ammiccare: il presentarsi in ogni cosa della superficie più
esteriore, oggettiva (gegenstandlichen)
e condizionata (zustandlichen),
quella che ognuno si aspetta, e che alla fine non è neanche più
necessario che ci si aspetti, come se fosse l’unica valida,
attraverso cui l’uomo conduce le sue azioni e valuta ogni cosa68.
L’accesso alla mémoire
involontaire può eventualmente essere provocato con un
artificio, come Odisseo chiamava fuori dall’Ade le ombre (eidola)
dei defunti, attirandoli col sangue di un animale sacrificato69.
L’effetto che si persegue non è diverso da quello che ricerca chi
si dà all’alcool, cioè lo stordimento e l’oblio del
tempo.
Ma non è forse la mémoire
involontaire anch’essa uno speciale artificio in vista della
produzione di un’esperienza “integrale” cui, altrimenti, non
avremmo più accesso, acquisto estremo di un soggetto in isolamento
totale, piegato molte volte su di sé (stratificato, freddo,
indurito), a volte preda del ridicolo quando, davanti a un pubblico,
si trova ad essere così esposto e investito dalla violenza del
ricordo70?
Perché il salotto dei Guermantes non è una corte Rinascimentale, né
fra i potenti e i poeti può più sussistere alcuna complicità nel
garantire la continuità di una tradizione di cui si è persa
irreparabilmente la potenza, cioè: non questo o quel contenuto
tramandabile, ma la tramandabilità stessa di un qualsivoglia
contenuto — alienazione del mezzo stesso di trasmissione — di
modo che possiamo solo accumulare ciò che il passato ci invia “in
una sorta di archivio di mostruoso”, come scrive Agamben, senza
poter più trarre da esso, dall’invio: “il criterio della nostra
azione e della nostra salute”71.
(In questo senso la Modernità è un perdurare nell’epigonalità,
senza mai pervenire allo status di posterità).
7. “Dimostrazione del fatto che
anche mezzi insufficienti, anzi infantili, possono servire alla
salvezza”72.
Le immagini balentanti vivide che sono
apporto della mémoire involontaire si manifestano al
Narratore relatrici di una forza soterica che è sufficiente a
riscattare la sua intera vita. Perché nell’atto in cui esse si
impongono alla coscienza, è dissolta “l’apparenza del
sempre-uguale” e l’apparato che garantiva la sussistenza di
quella falsa apparenza: l’Istituzione per la Conservazione e il
Mantenimento dello Stato-di-Cose si mostra a nudo (tutto un sistema
di valori ad hoc)73.
Nello smascheramento della finzione
del sempre-uguale, in questo disincanto, al tempo cupo della
rassegnazione si sostituisce il tempo chiaro dell’opportunità, cui
corrisponde, con “una presa rapida e brutale”, l’afferramento
del tempo perduto. Di questo tempo — che adesso stringe fra le mani
— uno può finalmente fare qualcosa, lo può “rimettere in
gioco”, nel modo, per esempio, della sua “narrazione”.
In
ogni vera opera d’arte c’è un momento in cui spira su chi vi
penetra un’aria fresca come un vento di primo mattino. Per questo
risulta che l’arte, considerata spesso refrattaria ad ogni
relazione col progresso, può servire alla sua autentica definizione.
Il progresso non è di
casa nella continuità del corso del tempo, ma nelle sue
interferenze: là, dove il veramente nuovo si rende percepibile per
la prima volta con la sobrietà del mattino74.
Sistema
Per Benjamin, come per Kant,
l’Architettonica è “l’arte del sistema”. Kant definisce il
sistema: “l’unità di molteplici conoscenze raccolte sotto
un’idea”75.
Che qui si tratti di una sussunzione, Benjamin può ben
dubitarlo, perché (proprio da Kant) egli ha imparato che l’idea
non è un concetto che scaturisca dalla riflessione dell’intelletto
e che pertanto: “quale criterio del suo consistere non si può
adottare quello pertinente la questione se essa comprenda sotto
di sé ciò che ha colto, come il concetto di specie comprende i
generi”76.
Perciò, secondo Benjamin, l’Architettonica è l’arte del sistema
ma il sistema è valido solo se configura una costellazione di
concetti, non una loro serie. Non la derivazione inferenziale dei
concetti l’uno dall’altro e tutti da un unico principio (questo
ideale “matematico” della conoscenza, in cui Benjamin scorge: “la
presunzione di impadronirsi della verità abbracciando il tutto
enciclopedico delle conoscenze della verità, la quale rimane
un’unità esente da salti”77),
ma il loro essere in relazione tutti, l’uno rispetto all’altro,
nell’unità dell’idea, come però divisi l’uno dall’altro,
conformemente a quella “discontinuità” che regna nel mondo
stesso delle idee (della cui unità interna o sistematica, anche
secondo Kant, non possiamo parlare, se non come della struttura
meramente soggettiva della nostra ragione).
L’architettonico esige dunque:
“l’arte del comporre di contro alla catena deduttiva”78,
secondo Benjamin, là dove l’elemento singolare non è la parte
sacrificata del tutto, bensì “diviene” tutto (nell’ora
della sua leggibilità).
Tra
il rapporto del singolo e dell’idea e quello del singolo e del
concetto non si dà analogia: nel secondo caso esso cade sotto il
concetto e rimane quel che era — singolarità; nel primo è
nell’idea e diventa quel che non era — totalità. E questa è la
sua platonica salvazione79.
Spleen
L’estrema innaturalità dello spleen
può forse essere compresa a partire dall’argomento cui Kant
ricorre per spiegare l’impossibilità di una dimostrazione dei
princìpi dinamici dell’intelletto puro, cioè che: “il tempo non
si può percepire”80.
Si tratta qui di fare alcuni accenni alla paradossale situazione in
cui verrebbe a trovarsi un uomo nel caso avesse qualcosa come una
“percezione del tempo”, argomentando sulla base della dottrina di
Kant.
Se il tempo fosse percettibile, non vi
sarebbe alcun bisogno di aspettare che l’oggetto si “installi”,
per così dire, nella presenza (nell’ora che è, di volta in
volta), per stabilire, in base a questo dato, il carattere
temporale di ciò che, pur non essendo dato, è presente (ed
il rapporto temporale tra i due), conformemente all’unità
regolativa rappresentata nelle categorie (es. causa-effetto), perché
potremmo determinare a priori il posto che l’oggetto occupa nel
tempo e la sua relazione col tempo, con la stessa certezza
intuitiva con cui determiniamo il posto che il numero10 occupa nella
serie numerica. Potremmo infatti costruirne il concetto, ovvero: non
semplicemente distinguere l’oggetto da tutti gli altri
ogniqualvolta esso ci si presenti assieme a tutti gli altri, in base,
appunto, al concetto che abbiamo di esso (esso ci è dato), bensì
determinare la presentazione stessa dell’oggetto, ogniqualvolta ce
ne venga voglia, tramite (appunto) la costruzione del concetto (così
come facciamo con l’ente matematico).
Il problema, a ben vedere, è: come
potremmo mai avere una sorpresa di fronte al fatto che le cose sono,
nell’era in cui il soggetto, che si vuole assoluto, non riconosce
altro principio dell’esistenza dell’oggetto che il proprio porre
rappresentativo?
Il soggetto determina a priori non
solamente le condizioni formali della possibilità dell’oggetto,
bensì le condizioni effettive della sua presentazione (hic et
nunc) che sono anche le condizioni della sua produzione
all’interno di un progetto tecnico.
I quadri futuristi
L’ultima scena del film Salò di
Pasolini presenta il sadico-fascista nel mentre assiste, munito di
binocolo, allo spettacolo della tortura dei ragazzi che si
svolge nel cortile, sotto le sue finestre. Appesi alle pareti della
stanza, dove si sta come in un palco a teatro, sono visibili i
quadri futuristi.
“Fiat
ars — pereat mundus”,
dice il fascismo, e, come ammette Marinetti, si aspetta dalla guerra
il soddisfacimento artistico della percezione sensoriale modificata
dalla tecnica. È questo, evidentemente, il compimento dell’arte
per l’arte. L’umanità, che in Omero era uno spettacolo per gli
dèi dell’Olimpo, ora lo è diventata per se stessa. La sua
autoestraniazione ha raggiunto un grado che le permette di vivere il
proprio annientamento come un godimento estetico di prim’ordine.
Questo il senso dell’estetizzazione della politica che il fascismo
persegue. Il comunismo gli risponde con la politicizzazione
dell’arte81.
1 M.
Proust, Alla ricerca del tempo perduto, Torino, Einaudi,
1978, vol. VII, p. 203.
2 Ibidem,
p. 197.
3 Cfr.
ibidem, p. 201.
4 Ibidem,
p 197.
5 Ibidem,
p. 199 sgg.
6 Ibidem,
vol. I, p. 48.
7 W.
Benjamin, Di alcuni motivi in Baudelaire, in Angelus
novus, Torino, Einaudi, 1962, p. 96. Benjamin fa
riferimento all’opera di Freud Al di là del principio del
piacere (1920), in La teoria psicoanalitica, Torino,
Boringhieri, 1979. Cfr. in particolare cap. 4, p. 233 sgg.
8 M.
Proust, Alla ricerca..., cit., vol. VII, p. 204
(corsivo nostro).
9 W.
Benjamin, Di alcuni motivi..., cit., p. 92.
10 Idem,
Parco centrale, in Angelus novus, cit., p. 140.
11 Ibidem,
p. 201.
12 C.
Baudelaire, Il confiteor dell’artista, in Piccoli poemi
in prosa, Milano, Rizzoli, 1990, p. 75.
13 Cfr.
W. Benjamin, Di alcuni motivi..., cit., p. 124.
14 Argomentando
intorno alla dottrina platonica della partecipazione (methexis)
delle cose alle idee, Heidegger scrive: “L’idea è il volto con
cui qualcosa mostra ogni volta il suo aspetto, con cui ci guarda e
in questo modo, ad es. un tavolo, appare. Esso ci guarda a partire
da questo aspetto” (M. Heidegger, Che cosa significa pensare?,
Milano, SugarCo, 1978, vol. II, p. 93).
15 Cfr.
W. Benjamin, Piccola storia della fotografia, in L’opera
d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica,
Torino, Einaudi, 1966, p. 70: “Che cos’è propriamente l’aura?
Un singolare intreccio di spazio e di tempo: l’apparizione unica
di una lontananza, per quanto questa possa essere vicina. Seguire
placidamente in un mezzogiorno d’estate, una catena di monti che
getta la sua ombra sull’osservatore, fino a quando l’attimo o
l’ora, partecipino della loro apparizione — tutto ciò significa
respirare l’aura di quei monti, di quel ramo”. Cfr. anche
idem, L’opera d’arte nell’epoca della sua
riproducibilità tecnica, p. 25: “Cade qui opportuno
illustrare il concetto, sopra proposto, di aura a proposito degli
oggetti storici mediante quello applicabile agli oggetti naturali.
Noi definiamo questi ultimi apparizioni uniche di una lontananza,
per quanto questa possa essere vicina. Seguire, in un pomeriggio
d’estate, una catena di monti all’orizzonte oppure un ramo che
getta la sua ombra su colui che si riposa — ciò significa
respirare l’aura di quelle montagne, di quel ramo”.
16 Idem,
Di alcuni motivi..., cit., p. 124.
17 Cfr.
ibidem, p. 117, nota.
18 Ibidem.
19 Cfr.
idem, Le affinità elettive, in Angelus Novus,
cit., p. 236: “Così, di fronte a tutto ciò che è bello, l’idea
del disvelamento diventa quella della sua indisvelabilità. Essa è
l’idea della critica d’arte. La critica d’arte non deve
sollevare il velo, quanto piuttosto — attraverso l’esatta
conoscenza di esso come velo — sollevarsi, solo così, alla vera
intuizione del bello. All’intuizione che non si schiuderà mai
alla cosiddetta “immedesimazione”, e solo imperfettamente alla
più pura contemplazione dell’ingenuo: all’intuizione del bello
come segreto”.
20 Idem,
Il dramma barocco tedesco (Premessa gnoseologica),
Torino, Einaudi, 1971, p. 9.
21 Ibidem,
p. 13.
22 Cfr.
la lettera di Hölderlin a Böhlendorff del 4 dicembre 1801.
23 W.
Benjamin, Le affinità elettive, cit., p. 221 sgg.
24 Ibidem,
p. 236.
25 Cfr.
ibidem, p. 221 sg.: “Come l’interruzione mediante una
parola di comando può trarre, dalle tergiversazioni di una donna,
la verità proprio sul punto in cui le interrompe, così
l’inespresso costringe l’armonia tremante a fermarsi, ed eterna
(con questa obbiezione) il suo tremito. In questo eternamento il
bello deve render conto di se stesso, ma proprio in questo render
conto esso appare come interrotto, e riceve l’eternità del suo
valore in virtù di quell’interruzione. L’inespresso è la
potenza critica, che se non può separare, nell’arte, l’apparenza
dall’essenza, vieta loro però di mescolarsi. Esso possiede
l’autorità come parola morale. Nell’inespresso appare la
potenza superiore del vero, che determina, secondo le leggi del
mondo morale, la lingua di quello reale. Esso spezza, cioè, quel
che resta, in ogni bella apparenza, come eredità del caos: la
totalità falsa, aberrante — la totalità assoluta. Esso solo
compie l’opera riducendola a un “pezzo”, a un frammento del
mondo vero, al torso di un simbolo”.
26 Omero,
Odissea, Torino, Einaudi, 1963, vol. XII, vv. 41-46.
27 Cfr.C.
Baudelaire, I fiori del male, Milano, Garzanti, 1981. In
particolare Une charogne (Una carogna), p. 53.
28 G.
Leopardi, Zibaldone di pensieri (4175-4177), Milano,
Garzanti, 1991, vol. II, p. 2298. “Entrate in un giardino di
piante, d’erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella
più mite stagione dell’anno. Voi non potete volgere lo sguardo in
un nessuna parte che voi non vi troviate del patimento. Tutta quella
famiglia di vegetali è in istato di suffrance, qual
individuo più, qual meno. Là quella rosa è offesa dal sole, che
gli ha dato la vita; si corruga, langue, appassisce. Là quel giglio
è succhiato crudelmente da un’ape, nelle sue parti più
sensibili, più vitali... Quell’albero è infestato da un
formicaio, quell’altro da bruchi, da mosche, da lumache, da
zanzare; questo è ferito dalla scorza e cruciato dall’aria o dal
sole che penetra nella piaga; quello è offeso nel tronco, o nelle
radici; quell’altro ha foglie più secche; quest’altro è roso,
morsicato nei fiori; quello trafitto, punzecchiato nei frutti”.
29 F.
Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Milano, Adelphi, 1991,
p. 168: “Ma questo, soltanto questo è la vendetta stessa:
l’avversione della volontà contro il tempo e il suo «così fu»”.
30 Idem,
La gaia scienza, Milano, Adelphi, 1984, p. 129.
31 Ibidem.
32 M.
Heidegger, La sentenza di Nietzsche “Dio è morto”, in
Sentieri interrotti, Firenze, La nuova Italia, 1978, p. 191.
33 Per
una riflessione radicale sulla domanda fondamentale della metafisica
(“domanda ontologicamente ineludibile ed eticamente necessaria”)
che suona: perché l’esistere di ciò che esiste piuttosto che il
niente? Warum ist überhaupt Seiendes und nicht vielmehr nichts?
Pourquoi il y a plutot quelque chose que rien? cfr. le opere
di A. Caracciolo, in particolare Nichilismo ed etica, Genova,
Il Melangolo, 1983.
34 M.
Heidegger, La sentenza..., cit., p. 325.
35 Sopra
le conseguenze di questa unificazione, non troviamo parole migliori
di quelle usate da Agamben in Infanzia e storia, Torino,
Einaudi, 1978, p. 17, dove possiamo leggere: “La trasformazione
del suo soggetto non lascia immutata l’esperienza tradizionale. In
quanto il suo fine era di portare l’uomo alla maturità, cioè a
una anticipazione della morte come idea di una totalità compiuta
dell’esperienza, essa era, infatti, qualcosa di essenzialmente
finito, era cioè, qualcosa che si poteva avere e non soltanto fare.
Ma, una volta che l’esperienza sia invece riferita al soggetto
della scienza, che non può giungere a maturità, ma solo accrescere
le proprie conoscenze, essa diventa, al contrario, qualcosa di
essenzialmente infinito, un concetto “asintotico” come dirà
Kant, cioè qualcosa che si può solo fare e mai avere: nient’altro
appunto che il processo infinito della conoscenza”.
36 Scrive
Nietzsche: “Il nichilismo incompiuto, le sue forme: viviamo in
mezzo ad esse. I tentativi di sottrarsi al nichilismo, senza
rovesciare i valori precedenti producono l’effetto opposto:
acutizzano il problema” (Volontà di potenza, Af. 1021,
anno 1887).
37 Risale
senza alcun dubbio a Leibniz questa particolare configurazione
(Pragung) metafisica dell’essere dell’ente come “volontà
di potenza” e, in particolare, alla sua Monadologia. (Così
ciascuna monade è definita anche da Leibniz: mundus
concentratus, il tutto da un punto di vista, ovv. anche: miroir
active indivisible, specchio vivente dell’universo, come ogni
“centro della volontà di potenza” si fa, secondo Nietzsche, dal
suo “punto di vista”, una determinata: “immagine del mondo”).
Si pensi anche all’interpretazione
leibniziana del subjectum come l’ens percipiens et
appetens (esposta in particolare in Gerh. II: tutte le parti
dedicate al carteggio con il de Volder) dove perceptio è
sinonimo di repraesentatio e l’appetitus è una
“tendenza al passaggio” (tendentia interna ad mutationem)
costitutiva di ciascun ente (in quanto tale) cui, senza dubbio, la
volontà di potenza nietzschiana è (almeno
idealmente) debitrice.
A questo “filo” della nostra tradizione
sono legati inoltre, secondo Heidegger, Le ricerche sull’essenza
della libertà umana (1809) di Schelling, e la Fenomenologia
dello spirito (1807) di Hegel.
38 Nell’era
del nichilismo compiuto, tutto il “vivente” si muove infatti,
secondo Nietzsche, avendo in vista, come egli dice, un: “Ideale di
vita potenziata al massimo” (Volontà di potenza, Af. 14,
anno 1887). “Volere, in generale, scrive anche Nietzsche,
significa voler divenire più forti, voler crescere e quindi volere
anche i mezzi relativi” (ibidem, Af. 675, anno 1887-88).
39 Ibidem,
Af. 853, anno 1887-88. Altrove è detto anche: “Abbiamo l’arte,
per non naufragare nella verità” (ibidem, Af. 822, anno
1888).
40 Ibidem,
Af. 851, anno 1888: “L’opera d’arte, dove essa appare senza
artista, ad esempio come Corpo, come Organizzazione (il Corpo degli
ufficiali prussiani, l’Ordine dei Gesuiti). In qual modo l’artista
è soltanto un primo passo. Il mondo come opera d’arte che
partorisce se stessa....”.
41 “Il
punto di vista del ‘valore’ è il punto di vista delle
condizioni di conservazione-accrescimento in ordine alle formazioni
complesse di relativa durata della vita in seno al divenire”
(ibidem, Af. 715, anno 1887-88).
42 Ibidem.
43 Ibidem,
Af. 14, anno 1887.
44 Cfr.
M. Heidegger, La sentenza..., cit., p. 219 sg.: “La
conservazione dei singoli gradi di potenza della volontà già
raggiunti, consiste nel fatto che la volontà si circonda di una
cerchia disponibile a ogni istante e fidata, in cui possa garantirsi
la propria sicurezza. Questa cerchia delimita ciò che per la
volontà è immediatamente disponibile in fatto di presenza (ousìa,
nel significato abituale del termine per i Greci). Questo qualcosa
di sussistente diviene qualcosa di presente, cioè di continuamente
disponibile, solo se sussiste attraverso un’operazione che lo
pone. Questo “porre” ha il modo d’essere della produzione
rappresentativa”.
45 Cfr.
idem, Chi è lo Zarathustra di Nietzsche, in Che
cosa significa pensare?, cit., p. 74. “Nietzsche caratterizza
l’ultimo uomo come quell’uomo tradizionale che ha, per così
dire, fissato in sé l’essenza umana fin qui tramandata... Il
porre-innanzi, il rappresentare, si attiene allora ormai soltanto a
ciò che ogni volta è posto per esso e con esso (das jeweils Zu-
und Bei-Gestellte), ossia a qualcosa la cui destinazione
(Zustellung) viene regolata dall’andamento e dal capriccio
della rappresentazione umana e attesa in base alla generale
comprensibilità e convenienza. Tutto ciò che è giunge
all’apparire solo fin tanto che questo rappresentare che
tacitamente ha fissato il termine dell’attesa viene destinato
(zugestellt) ad essere oggetto (Gegenstand) o
condizione (Zustand), perché solo così gli è concesso di
essere. L’ultimo uomo, la specie definitiva dell’uomo
tradizionale, fissa se stesso e in generale tutto ciò che è
tramite una particolare maniera di porre-innanzi, di rappresentare”.
Cfr. anche idem, L’epoca dell’immagine del mondo,
in Sentieri interrotti, cit., p. 87 sg. Cfr. anche ibidem,
p. 93.
46 F.
Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano, 1991,
p. 119. “Diverso, certamente, è il volere delle tarantole.
«Proprio questo significhi per noi giustizia: che il mondo si
ricolmi delle tempeste della nostra vendetta»” — così esse
parlano tra loro”.
47 Idem,
La gaia scienza, cit., p. 201 sg.
48 W.
Benjamin, Giocattolo e gioco, in Ombre corte, Torino,
Einaudi, 1993, p. 90 (“Spielen” in tedesco significa sia:
“giocare” che “recitare”).
49 C.
Baudelaire, Piccoli poemi in prosa, cit., p. 279.
50 Ibidem.
51 Ibidem.
52 Ibidem.
53 Vediamo
come Heidegger nel saggio L’epoca dell’immagine... (cit.,
p. 89) si serva proprio della metafora delle correspondances
per spiegare il “percepire” dei Greci (idein), in
contrapposizione alla repraesentatio dei moderni. Si tratta
di due diversi modi di stare in mezzo all’ente (con una
comprensione del suo essere), ma il secondo è affatto perverso.
Come spiega Heidegger: “L’ente non diviene essente per il fatto
che l’uomo lo intuisca nel corso della rappresentazione intesa
come percezione soggettiva. È piuttosto l’uomo ad esser guardato
dall’ente, cioè dall’autoaprentesi all’esser-presente in esso
raccolto. Guardato dall’ente, compreso e mantenuto nell’aperto
dell’ente, sorretto da esso, coinvolto nei suoi contrasti e
segnato dal suo dissidio: ecco l’essenza dell’uomo nel periodo
della grandezza greca... Un senso del tutto diverso dal percepire
greco è il moderno rappresentare, il cui significato è espresso
perfettamente nella parola repraesentatio. Rappresentare,
cioè porre-innanzi, significa in questo caso: portare innanzi a sé
la semplice-presenza come qualcosa di contrapposto, rapportarla a
sé, cioè al rappresentante e, in questo rapporto, ricondurla al
soggetto come al principio di ogni misura. Quando ciò avviene,
l’uomo si fa un’idea fissa dell’ente”.
54 Idem,
La sentenza di Nietzsche..., cit., p. 225.
55 Af.
12, anno 1883.
56 Sulla
natura cultuale e architettonica dell’arte (in quanto tale), cfr.
E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee,
vol. II, Torino, Einaudi, 1976, p. 357. “La radice comune al
sanscr. rta, ir. arta, lat. ars, artus,
ritus, che designa l’“ordine” come adattamento armonico
delle parti di un tutto tra loro...”.
57 W.
Benjamin, Di alcuni motivi..., cit., p. 120.
58 In
questa direzione sembra muoversi Heidegger, quando ad es. scrive:
“Nell’interpretazione moderna dell’ente, la rappresentazione
del valore ha la stessa importanza del sistema. Accade infatti che
là dove l’ente sia divenuto oggetto della rappresentazione, perda
in certo modo il suo essere. Anche se oscuramente e incertamente,
questa perdita è avvertita e, perciò, rapidamente surrogata
mediante l’attribuzione all’oggetto, e quindi all’ente
inerpretato come oggetto, di un valore... Il valore sembra attestare
che, rapportandosi ad esso, si persegue proprio ciò che è più
degno di valore, quando in realtà esso non è che l’inutile e
consunto sipario dietro cui si nasconde la riduzione dell’ente a
oggettività” (M. Heidegger, L’epoca dell’immagine...,
cit., p. 87 sgg., nota).
59 G.
Agamben, Stanze, Torino, Einaudi, 1977, p. 52 (scolii).
60 Cfr.
C. Baudelaire, Esposizione universale - 1855 - Belle arti, in
Scritti sull’arte, Torino, Einaudi, 1981, p. 183.
61 Cfr.
K. Marx, Il capitale, Roma, Editori Riuniti, 1989, p. 103.
62 C.
Baudelaire, Il confiteor dell’artista, cit., p. 75. “E
adesso la profondità del cielo mi costerna; la sua limpidezza
m’esaspera. L’insensibilità del mare, l’immutabilità dello
spettacolo, mi rivoltano... Ah, si deve eternamente soffrire, o
fuggire eternamente la bellezza? Natura, incantatrice senza pietà,
rivale sempre vittoriosa, lasciami! Smettila di tentare i miei
desideri e il mio orgoglio! Lo studio della bellezza è un duello in
cui l’artista grida di spavento prima di essere vinto”.
63 Ibidem.
64 W.
Benjamin, Di alcuni motivi..., cit., p. 120 sg.
65 La
ginestra, v. 51. In G. Leopardi, Canti, Milano, Rizzoli,
1974, p. 177.
66 E.
Husserl, Logica formale e trascendentale, Bari, Laterza,
1966, p. 8. (Idem, Formale und transzendentale Logik,
Tubingen, Max Niemeyer Verlag, 1981, p. 5).
67 F.
Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., p. 11.
68 M.
Heidegger, Che cosa significa pensare?, cit., vol. I, p. 77
sg.
69 Cfr.
M. Proust, Alla ricerca..., cit., vol. VII, p. 253:
“In Baudelaire, infine, tali reminiscenze, ancor più numerose,
sono evidentemente meno fortuite e, di conseguenza, a mio parere,
decisive. Il poeta stesso, con maggior scelta e abbandono, cerca di
proposito, nell’odore d’una donna, per esempio, della sua chioma
e del suo seno, le analogie ispiratrici che gli rievocheranno
«l’azzurro del cielo immenso e circolare» o «un porto pieno di
fiamme e di navi»”.
70 Cfr.
W. Benjamin, Di alcuni motivi..., cit., p. 97: “In
balia dello spavento, Baudelaire non è alieno dal provocarlo a sua
volta. Vallès riferisce del gioco eccentrico dei suoi lineamenti;
Pontmartin osserva, in un ritratto di Nargeot, l’espressione
estraniata del suo volto; Claudel indugia sull’accento tagliente
di cui si serviva nella conversazione; Gautier parla degli stacchi
nel suo modo di declamare; Nadar descrive la sua andatura spezzata”.
71 Cfr.
G. Agamben, L’uomo senza contenuto, Macerata, Quodlibet,
1994. In particolare cap. X: L’angelo malinconico,
p. 157 sgg.
72 F.
Kafka, Il silenzio delle sirene, in Schizzi - Parabole -
Aforismi, Milano, Mursia, 1983, p. 139. Kafka poteva dubitare
che Ulisse (“che non pensava altro che a cera e catene”), non
avesse notato il silenzio delle sirene. E però aggiunge
(nella sua solita appendice): “Del resto, ancora un’appendice
viene tramandata in aggiunta a questa leggenda. Ulisse, si dice, fu
così scaltro, fu una tale volpe, che neppure la dea del destino
riuscì a penetrare nelle pieghe più segrete del suo animo. Forse,
sebbene questo non sia più accessibile ad un intelletto umano, egli
ha veramente notato che le sirene tacevano, e, per così dire a
guisa di scudo, ha opposto a loro, e agli dei, la commedia di cui
abbiamo narrato”.
73 Cfr.
W. Benjamin, Per un ritratto di Proust, in Ombre cortoe,
cit., p. 360. “La caratteristica di Proust non è l’umorismo ma
la comicità; in lui il riso non solleva il mondo ma lo scaraventa a
terra. Col pericolo che vada in pezzi, di fronte ai quali scoppierà
egli stesso in lacrime. E vanno effettivamente in pezzi l’unità
della famiglia e della persona, della morale sessuale e del decoro
sociale. Le pretese della borghesia vanno in pezzi nel riso. La sua
via di scampo, la riassimilazione da parte della nobiltà, è il
tema sociologico dell’opera”.
74 Idem,
Teoria della conoscenza e del progresso, in Parigi
capitale del XIX secolo, Torino, Einaudi, 1986, p. 615.
75 I.
Kant, Critica della ragion pura, Bari, Laterza, 1985, p. 629.
76 W.
Benjamin, Il dramma barocco tedesco..., cit., p. 11.
77 Ibidem,
p. 10.
78 Ibidem
p. 9.
79 Ibidem,
p. 25
80 “A
meno che, scrive Kant, non si voglia interamente prescindere dal
senso della parola, pel quale dimostrare (ostendere,
exhibere) significa esibire il proprio concetto
nell’intuizione (o con prove o anche in una semplice
definizione)”. I. Kant., Critica del giudizio, Bari,
Laterza, 1982, p. 206. Per quanto infatti la realtà rappresentata
nei concetti puri dell’intelletto possa essere rappresentata
intuitivamente a priori (sulla base dell’intuizione pura del
tempo), con ciò noi non abbiamo alcuna prova della realtà
oggettiva del concetto che sia apodittica ovv. intuitiva, ed anzi
questa è data solo a posteriori.
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