lunedì 9 dicembre 2013

Il silenzio delle sirene- Nicola Bucci.

IMMAGINI DELLA FATTICITÀ

Nicola Bucci


Immagine

Soltanto il linguaggio consente ad un fatto di essere compreso “in quanto” qualcosa. Unicamente nei logoi è possibile incontrare una “cosa” in quanto tale. Perciò, nel Fedone, Socrate confessa che, dopo molti vani tentativi di ricerca della verità degli enti, soltanto nei logoi gli parve alfine di poterla trovare. In questo dialogo, Platone esclude energicamente a priori la possibilità di un’intuizione diretta e prelinguistica delle cose. Come dice infatti Socrate, rivolto a Cebete, voler esperire le cose troppo direttamente è pericoloso nella massima misura. È come tra “coloro che durante una eclissi contemplano e indagano il sole: alcuni infatti ci perdono gli occhi, se non si limitano a considerarne l’immagine riflessa nell’acqua o in qualcos’altro di simile. E così pensai anch’io e temei mi s’accecasse del tutto l’anima a voler guardare direttamente le cose con gli occhi e cercare di coglierle con ciascuno dei sensi. E credetti che mi bisognasse rifugiarmi nei discorsi, e considerare in essi la realtà delle cose esistenti” (Phaed., 99e).
Sebbene l’esposizione nei logoi comporti sempre una mediazione, simile al riflesso di una cosa in uno specchio d’acqua, Socrate precisa che, a ben vedere, tale similitudine con l’immagine riflessa non è per nulla esatta: “Perché io non posso ammettere che chi considera le cose nei discorsi veda le cose in immagine più di chi le consideri nella loro realtà” (ivi, 100a). Chi guarda la verità degli enti nella mediazione dei logoi non si può dire, infatti, che la veda in immagine più di colui che pretende attingerla immediatamente e intuitivamente nell’esperienza empirica, giacché quest’ultima è sempre fallace.

Del rapporto tra l’idea platonica e la cosa, Benjamin ci ha offerto un’esposizione esemplare nella Premessa gnoseologica all’Origine del dramma barocco tedesco pubblicato nel 1928 presso l’editore Rowohlt di Berlino: “le idee intrattengono con le cose un rapporto simile a quello che c’è tra le immagini delle stelle e le stelle”1. L’idea non è tuttavia qualcosa come una luce che emana dalle cose stesse, di cui l’intelletto possa avere un’intuizione immediata. Secondo Benjamin: “L’essere delle idee non può assolutamente venir pensato quale oggetto di un’intuizione, neppure dell’intuizione intellettuale”2.
L’interpretazione di Platone, proposta da Benjamin nella Premessa gnoseologica, trova piena conferma proprio nel passo del Fedone dal quale abbiamo preso le mosse. Contrariamente a quel che sostengono tutti coloro che hanno interpretato la filosofia platonica come un “realismo delle essenze”, Platone esclude dal dominio della conoscenza non solo l’intuizione sensibile, ma altresì quella intellettuale. Se infatti avessimo una visione diretta della cosa, saremmo soltanto abbacinati da tutta quella luce, come lo schiavo della Repubblica di fronte al sole della verità, e non avremmo di tale visione veramente nulla da dire, né di essa potremmo mai serbare alcuna memoria. Si deve allora sempre schermare mediante il linguaggio la luce eccessiva dei fenomeni, come diceva Socrate. Altrimenti si rischia soltanto di rimanerne acciecati, senza nulla vedere in realtà. Il linguaggio non è altro, in questa chiave, se non il medio in cui già sempre le cose si manifestano, appaiono. Possiamo avere, infatti, una percezione dell’albero “in quanto” albero o della sedia “in quanto” sedia, soltanto perché ogni nostra intuizione è preliminarmente mediata dal linguaggio, e ogni cosa si dà, volta per volta, a comprendere nel suo “in quanto”. Per Benjamin, infatti: “l’idea è un che di linguistico (ein Sprachliches), più precisamente: qualcosa che, nell’essenza della parola coincide col momento in cui questa è simbolo”3.

Nome

Se “le idee intrattengono con le cose un rapporto simile a quello che c’è tra le immagini delle stelle e le stelle”, l’immagine della cosa che si annuncia nel linguaggio è, per Benjamin, il nome. “L’essere sottratto ad ogni fenomenicità, l’unico essere a cui spetti questa potenza, è quello del nome. Esso determina il darsi delle idee”4. Le idee sono intese da Benjamin, in perfetta sintonia col saggio del 1916 Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo5, come una lingua adamitica di puri nomi. “Non si tratta — scrive ancora Benjamin nella Premessa gnoseologica al Dramma barocco — di una presentazione intuitiva di immagini; piuttosto, nella contemplazione filosofica, dal nucleo più intimo della realtà, si libera l’idea in quanto parola, parola che di nuovo pretende ai suoi diritti denominativi”.

Tra onoma e logos, tra il piano dell’espressione e quello della significazione, Platone riconosce tuttavia uno iato incolmabile. È infatti escluso che la pura espressione di qualcosa possa trovare adempimento in un discorso. Ciò che, come indice della cosa stessa, può essere espresso nel nome, non può essere significato nel discorso. Da Antistene Platone riprende e riabilita, in tutta la sua radicalità, l’idea che delle sostanze semplici non possa esservi logos, cioè definizione: “I primi elementi non hanno logos. Ciascuno, esso stesso su se stesso, può sotanto essere nominato, ma non è possibile aggiungervi altro con il discorso, né come è né come non è: così gli si aggiungerebbe l’essere e il non essere, e, invece, se si vuol dirlo esso stesso, non si deve aggiungere nulla... non gli appartiene altro che di potersi nominare” (Theat., 2O1e - 202b).
La stessa aporia platonica è ripresa dal giovane Wittgenstein in una delle proposizioni più importanti del Tractatus: “Gli oggetti io li posso solo nominare. I segni ne sono rappresentanti. Io posso solo dirne, non dirli. Una proposizione può dire solo come una cosa è, non che cosa essa è” (prop. 3, 221).
Non è quindi un caso che, al fine di spiegare che cosa fossero gli oggetti del Tractatus, Wittgenstein citi, nelle Ricerche filosofiche, proprio il passo del Teeteto sulle sostanze semplici: “Questi elementi primi erano anche gli ‘individui’ di Russel, nonché i miei oggetti” (I, § 46). Come afferma Hintikka6, che al problema dello statuto degli “oggetti” nel Tractatus ha dedicato un illuminante studio, il problema di fondo è qui “l’ineffabilità dell’esistenza di qualunque oggetto semplice”.

a) I nomi sono, come dice Wittgenstein, i puri rappresentanti delle cose. Poiché sono termini convenzionali della lingua, che stanno in luogo delle cose, i nomi non hanno allora altro significato, se non le cose stesse — gli oggetti — che essi annunciano.
Se il nome, nella sua funzione vicaria, significa l’oggetto e l’oggetto è il significato del nome, come afferma Wittgenstein, ci troviamo però qui di fronte a una vera e propria tautologia.
Ribadendo quanto già aveva obiettato Aristotele a Platone in merito alla pretesa di venire in chiaro dell’origine e della verità dei nomi, Wittgenstein afferma che soltanto nella proposizione, nell’articolazione diairetica della relazione “qualcosa in quanto qualcosa”, il nome può avere significato: “Nur in einer Satz, ein Name hat Bedeutung”. Benché la verità del nome consista nella sua Bedeutung, questa non è mai tuttavia traducibile in una “descrizione semantica” proposizionale. Di ciò che, nel nome, è espresso, non è tuttavia mai possibile rendere ragione. Il nome significa sempre un “qualcosa”, ma il significato del nome non può mai essere aperto in proposizioni, poiché “è affatto semplice e nulla può essergli aggiunto con il discorso”: il significato del nome non è che l’oggetto stesso: la “cosa” che il nome stesso annuncia nella sua posizione semplice e assoluta al di fuori del linguaggio.
b) Platone, che aveva propugnato una dottrina della verità basata sulla mediazione del linguaggio, e aveva denunciato la “misologia” come il peggiore dei mali, è altresì colui che, nella filosofia, aveva innanzitutto collocato un’istanza critica rispetto al linguaggio stesso. Come egli scrive nella Lettera VII, colui che, nel linguaggio cerca un “che”, trova sempre e soltanto un “quale”: il linguaggio consente infatti, mediante la designazione di un quale, di portare qualcosa ad espressione. Ma il quale, sia esso l’immagine, il nome, il discorso, o la conoscenza medesima, risulta nondimeno sempre altro dalla cosa stessa, per se stessa irriducibile ad ogni qualificazione. Il linguaggio ricaccia indietro l’essere, il presupposto non linguistico della significazione, nell’atto stesso in cui pretende di portarlo alla luce.
Secondo l’impostazione platonica, benché sia il linguaggio a consentire di comprendere una cosa in se stessa, è paradossalmente sempre ancora il linguaggio ad introdurre in ciò che è semplice una relazione, in ciò che è proprio un’alterità. Poiché non si dà essere se non nel linguaggio, come decide una volta per tutte Socrate nel Fedone, venire in chiaro dell’essere comporta, allora, per Platone, una critica del linguaggio stesso, che è sempre, alla lettera, un discernimento dell’essere — del non linguistico — nel linguaggio, una skepsis en tois logois. La filosofia è infatti quel discorso che, ancora prima di pronunciarsi su questa o quella cosa, è tenuto innanzitutto a rendere ragione del fatto stesso che ne parla. Prima ancora di interrogarsi su una cosa qualunque, la filosofia deve porre in questione se stessa al fine di esibire la legittimità della sua pretesa di principio, della sua esigenza di verità. Si tratta, ogni volta, di esporre, del linguaggio, quella soglia in cui la designazione di qualcosa “in quanto” qualcosa trapassa nella pura indicazione; si tratta di esibire il limite del linguaggio stesso, di deporre interamente ogni sua pretesa tetica, mostrando, come scrive Platone nella Lettera VII, tutta la debolezza del linguaggio (dià to ton logon asthenés).

Lo stesso problema affrontato da Platone nell’excursus gnoseologico della Lettera VII, si ritrova al centro di uno dei testi più decisivi della filosofia del novecento, il Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein. “Tutta la filosofia — scrive infatti Wittgenstein — è “critica del linguaggio” (prop. 4.0031). Questa istanza critica, che in Kant aveva raggiunto l’acme della sua portata filosofica, è ribadita, con forza, da Wittgenstein, già nella prefazione del libro: “Il libro vuol, dunque, tracciare al pensiero un limite (Grenze), o piuttosto — non al pensiero stesso, ma all’espressione (Ausdruck) dei pensieri: Ché, per tracciare un limite al pensiero, noi dovremmo poter pensare ambo i lati di questo limite (dovremmo, dunque, poter pensare quel che pensare non si può)”.
Come Platone nella Lettera VII, Wittgenstein riconosce immediatamente una cesura, nel linguaggio, tra l’ostensione e la significazione, tra l’atto che semplicemente annuncia qualcosa e quello che lo designa secondo un certo quale. Si tratta di un primato del mostrare (zeigen) sul dire (sagen). Il problema, formulato da Wittgenstein nella 4.1212 del Tractatus: “Ciò che può essere mostrato non può essere detto” (Was gezeigt werden kann, kann nicht gesagt werden), si annuncia, infatti, fin dalle primissime battute della Prefazione, come il problema preliminare dell’intero libro e come il compito in senso proprio della ricerca filosofica: “Il libro tratta i problemi filosofici e mostra (zeigt) — credo (wie ich glaube) — che la formulazione di questi problemi si fonda su un fraintendimento della logica del nostro linguaggio. Tutto il senso del libro si potrebbe riassumere nelle parole: Tutto ciò che può essere detto si può dire chiaramente; e su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere”.

Quel che può essere “mostrato” non può essere “detto”, ma ciò che può essere detto non può essere mostrato. Wittgenstein, il quale credeva, col Tractatus: “d’aver definitivamente risolto nell’essenziale i problemi” della filosofia, presenta tuttavia la sua impresa filosofica sotto l’indice di una impossibilità preliminare, che segna, per il pensiero, un limite insuperabile. Questo limite, che discrimina il pensabile da “quel che pensare non si può”, il non linguistico dal linguaggio, segna in realtà il concavo e il convesso di una medesima linea di confine, liminare e anipotetica, esattamente come il chorismòs che Platone aveva riconosciuto tra le cose stesse e i fenomeni. Per poter tracciare il limite del pensiero rispetto al linguaggio, si dovrebbe infatti poter vedere “ambo i lati di questo limite”, e ciò, appunto, è impossibile. Il limite tra ciò che è dentro e ciò che è fuori del linguaggio, ricade infatti sempre nel linguaggio stesso, appunto come il crinale che separa, fin da principio, l’espressione dalla significazione, il mostrare dal dire.
Come già per Kant, il linguaggio è dunque, per Wittgenstein, delimitato preliminarmente da un’impossibilità. La possibilità che in questo modo risulta esclusa preliminarmente dal linguaggio, non si colloca tuttavia semplicemente fuori del linguaggio, ma ne descrive il confine trascendentale: essa costituisce piuttosto il caso limite, il caso d’eccezione del linguaggio, ossia il punto in cui il linguaggio non significa più nulla, ma mostra sé. “Il limite non potrà, dunque, venir tracciato che nel linguaggio, e ciò che è oltre il limite non sarà che non senso”.
Esattamente come aveva sostenuto Platone nel Fedone, un’esperienza delle cose e del mondo, muta e prelinguistica, non è in nessun caso possibile, poiché non vi è mai, né per Platone, né per Wittgenstein, un fuori del linguaggio. Sull’impossibilità, per Wittgenstein, di un’intuizione prelogica o prelinguistica delle cose stesse, la prop. 4.12 dissolve ogni dubbio:

“La proposizione può rappresentare la realtà tutta, ma non può rappresentare ciò che, con la realtà, essa deve avere in comune per poterla rappresentare — la forma logica.
Per poter rappresentare la forma logica, noi dovremmo poter situare noi stessi con la proposizione fuori della logica, ossia fuori del mondo”.

L’impossibilità di portare al linguaggio quel che una proposizione ha in comune con i fatti da essa descritti, riguarda propriamente quel che, anche Wittgenstein, come già Platone, chiama “immagine”: “l’immagine logica può raffigurare il mondo”, ma, come si legge nella prop. 2.172: “La sua propria forma di raffigurazione, tuttavia, l’immagine non può raffigurarsela; essa la esibisce”.

Somiglianza

Si rimprovera sovente a Platone di aver troppo sbrigativamente liquidato le arti come attività soltanto mimetiche, e di esser stato comunque troppo severo e intransigente con gli artisti. Nel bandire così decisamente gli artisti dalla città come miserevoli impostori, considerandoli nella massima misura dannosi per il consorzio umano, Platone avrebbe quindi trascurato ciò che Aristotele riconoscerà invece alle tecniche artistiche in linea di principio, ossia — come si legge nel libro V della Metafisica — che: “anche le arti sono origini (archai), soprattutto quelle architettoniche” (1013a), e che, pertanto, il fare artistico non è mai soltanto riproduttivo, ma immaginativo e creativo nella massima misura. Nella sua istanza architettonica l’immagine del mondo che l’opera d’arte produce è ben diversa da una mera impostura, non è soltanto un gioco illusionistico da prestidigitatori, ma posizione di un principio (arché) e di una misura (metron), istituzione di un ordine.

L’idea che l’arte sia mimesis ha condotto sovente, sulla falsariga di Platone, ad accomunarla, in generale, al falso, all’impostura. Come imitazione, l’opera d’arte è l’esatto contrario di ciò che comunemente si intende con la parola “origine”, in quanto designa propriamente ciò che è artefatto, qualcosa di artificioso, di non originario.
Poiché è il prodotto di una techne e di un lavoro umano, l’opera d’arte è sempre qualcosa di artificiale. Essa è in ogni modo qualcosa di non spontaneo, di non sorgivo e si distingue perciò radicalmente da tutto quel che i greci intendevano come natura. La natura, nel senso della physis greca, è quel che incessantemente sorge e tramonta in sé: la natura è l’eterno circolo di generazione e corruzione da cui le cose sorgono e in cui sono destinate infine a tornare per decreto di una dike. Totalmente altra è l’opera d’arte dal germogliare di un seme o dallo sbocciare di un fiore. L’arte non è generazione, ma produzione, non è crescita, ma lavoro. L’arte non può far altro che fingere ciò che la natura schiude, ogni volta mediante un artificio laborioso, che suppone, non solo la padronanza di una facoltà tecnica, ma l’abilità e la maestria nel suo esercizio. L’opera d’arte appartiene perciò, secondo questa opinione diffusa, alla dimensione del falso e dell’impostura in quanto appunto è sempre la replica di un originale, è sempre qualcosa che prende il posto di qualcosa, si sostituisce surrettiziamente ad un oggetto assente, svolgendo di esso una funzione comunque vicaria.
Perciò le arti mimetiche sono, per Platone, dannose nella massima misura. In fondo, quella di Platone è una preoccupazione pedagogica: a forza di imitare, di surrogare la natura, l’animo prende un’inclinazione perversa rispetto alla sua forma di vita autentica, che diventa, per abitudine, una sorta di seconda natura: “Le imitazioni se principiano fin dalla giovinezza e si protraggono a lungo, si consolidano in abitudini e costituiscono una seconda natura; e il fenomeno ha luogo per il corpo e per la voce come per il pensiero”7.

All’immagine, Platone non contrappone, tuttavia, la cosa. Egli distingue, semmai, l’immagine dall’immagine. Da un lato l’immagine è la mera apparenza sensibile, dall’altro essa è quella visione (eidos) della cosa stessa, distinta dal mero fenomeno empirico, che è possibile soltanto nel medio del linguaggio. Nella Premessa gnoseologica, Benjamin definiva infatti l’idea come “un che di linguistico”. Essa coincide, allora, con ciò che, nel suo saggio giovanile Sulla lingua, Benjamin indicava come l’essenza puramente spirituale delle cose, la quale altro non è se non la lingua in cui esse si esprimono.

La lingua comunica l’essere linguistico delle cose. Ma la sua manifestazione più chiara è la lingua stessa. La risposta alla questione: che cosa comunica la lingua? è quindi: ogni lingua comunica se stessa. Il linguaggio di questa lampada, per esempio, non comunica la lampada (poiché l’essenza spirituale della lampada, in quanto comunicabile, non è per nulla la lampada stessa), ma la lampada-del-linguaggio, la lampada-nella-comunicazione, la lampada-nell’espressione. Poiché così avviene nella lingua: l’essere linguistico delle cose è la loro lingua8.

L’“essenza spirituale” è la lampada-nel-linguaggio. La lampada-del-linguaggio non è, evidentemente, una lampada, ma l’immagine della lampada, l’essere linguistico della lampada. L’immagine non è tuttavia neppure un’altra cosa dalla lampada, ma la lampada stessa, la lampada in quanto tale. Secondo quanto scrive Benjamin nel saggio del 1916, l’immagine della lampada nel linguaggio comunica l’“essere” del non linguistico, ma sempre tuttavia come l’essere-del-non-linguistico-nel-linguaggio: come l’“essenza”, appunto, come l’“idea” della lampada. L’immagine della cosa nel linguaggio, definita anche da Wittgenstein come “la forma logica della raffigurazione”, non è mai, per Benjamin, l’oggetto di un’intuizione empirica, né di un’intuizione intellettuale.
Nel linguaggio è presente una dimensione originariamente “mimetica” che ci impedisce di cadere nell’equivoco piccolo borghese che concepisce il linguaggio come un mero sistema convenzionale di segni. Posto che nel linguaggio vi sia sempre una mediazione, questa mediazione è immediata, come ribadirà Hegel. Secondo le parole pronunciate da Socrate nel Fedone, non è in alcun caso possibile ammettere: “che chi considera le cose nei discorsi le veda in immagini piuttosto di colui che le considera nella realtà”.
L’immagine nella quale ogni cosa si presenta nel linguaggio è, per Benjamin, qualcosa come una “somiglianza immateriale”, che egli fa coincidere, ancora una volta, con la lingua9.

Non occorre rammentare che anche il concetto di imitazione mantiene in Platone due significati distinti: quella degli artisti è solo riproduttiva, poiché riproduce un aspetto sensibile, una mera apparenza fenomenica, mentre quella filosofica, che somiglia proprio alla facoltà mimetica della quale parlava Benjamin, espone il fenomeno stesso come ciò in cui quel che non ha forma, né figura sensibile — l’idea — viene, come tale, a un’esposizione paradigmatica nel linguaggio. L’immagine, che il filosofo persegue, è quel limite estremo dell’esposizione delle cose nel linguaggio, che Benjamin chiama il “privo d’espressione”. Non si tratta, qui, infatti, neppure più di imitazione, ma di immaginazione o, se si preferisce, di ideazione.
Di un’immaginazione (phantasia) dello stesso tipo, che ha in sé una forma di sophia, e che non mantiene perciò più con la mimesis un rapporto puramente ancillare, parlava già, nel II secolo d. C., Flavio Filostrato nella Vita di Apollonio di Tiana, a proposito delle opere di artisti come Fidia e Prassitele. Di essa Filostrato tesse l’elogio: “poiché la mimesis rappresenta in immagine solo ciò che ha visto, la phantasia invece anche ciò che non ha visto”.

Origine

Da una parte l’opera d’arte è la copia di un originale: è l’esposizione, pertanto, di una somiglianza, di un’immagine. D’altra parte, poiché nell’arte è in gioco un’istanza poietica, questa somiglianza non è mai quella tra un originale, del quale si possa avere un’intuizione immediata e diretta, e un’immagine riflessa, una replica di questo, col quale si possa fare a posteriori il raffronto. Il motto con cui Benjamin esemplifica il funzionamento della mimesis immateriale del linguaggio: “Leggere ciò che non è mai stato scritto”, non ci presenta infatti la somiglianza come il rapporto con un originale, con l’anteriorità logica o cronologica di un fatto. La somiglianza indica, al contrario, il venire al linguaggio proprio di ciò che non è mai stato. La “somiglianza immateriale” non riguarda un presupposto, ma un’origine che è data, per la prima volta, soltanto nella ripetizione.

L’origine, benché sia una categoria pienamente storica, non ha nulla in comune con la genesi. Con origine non si intende un divenire del già nato, bensì un divenire e un trapassare di ciò che nasce. L’origine sta nel fiume del divenire come un vortice e trascina dentro la propria ritmica il materiale della nascita10.

Quell’origine, della quale Benjamin afferma che “sta nel fiume del divenire come un vortice” non è una categoria logica, bensì storica:

In ogni fenomeno d’origine si determina la forma sotto la quale un’idea sempre di nuovo si confronta col mondo storico, fino a quando non sia lì, compiuta, nella totalità della sua storia. Così l’origine non è emergente dai dati di fatto, essa ne investe la preistoria e la storia successiva. Le direttive della dialettica filosofica sono indicate nella dialettica che è intrinseca all’origine. Da essa risulta come l’unicità e la ripetizione si condizionino disordinatamente. Sicché la categoria dell’origine non è, come ritiene Cohen, una categoria puramente logica, bensì storica. È noto l’hegeliano “tanto peggio per i fatti”. In fondo esso vuol dire: la penetrazione dei nessi essenziali è affare del filosofo, e i nessi essenziali rimagono quelli che sono anche se nella loro purezza non si configurano nel mondo dei fatti11.
Se nello scritto sulla facoltà mimetica era in questione una somiglianza immateriale e si trattava di “leggere — nel linguaggio — ciò che non è mai stato scritto”, secondo quanto afferma Filostrato anche l’artista mostra un’immagine che non ha mai visto prima. L’immagine di ciò che non abbiamo “mai visto” è come quella che Benjamin, nella sezione introduttiva al libro sui Passages12, definisce “immagine dialettica”.

L’immagine dialettica è un’immagine balenante. Ciò che è stato va trattenuto così, come un’immagine che balena nell’ora della sua conoscibilità (N 7,7).

Come scrive Benjamin, l’“immagine dialettica” non è mai l’immagine tramandata di qualcosa che è stato: “l’esposizione materialistica della storia procede per immagini in un senso più alto che non quella tramandata” (N 3,3). La sezione, che avrebbe dovuto costituire la premessa teorica al libro sui Passages, compendia allora quella critica radicale dello storicismo che era il centro nevralgico delle Tesi di filosofia della storia. “La storia, che mostrava la cosa «come propriamente è stata», era il narcotico più forte del secolo” (N 3,4).
L’“immagine dialettica” è sempre, infatti, un’immagine storica, ma non è tuttavia l’immagine di un fatto incontrovertibile, che sia accaduto nel passato, bensì un’immagine che articola la relazione temporale in cui l’unicità e la ripetizione, l’esser stato e l’ora si “uniscono fulmineamente in una costellazione”. L’immagine dialettica è come l’immagine di un sogno. Essa esiste perciò soltanto quando ci ridestiamo dal sogno, come un’immagine che non è mai stata prima che di essa ci ricordassimo.

Memoria

Alla nozione di mémoire involontaire, Benjamin ha riconosciuto sempre un significato paradigmatico per la concezione del tempo storico.
Si trova, in particolare, una breve paginetta dedicata al concetto di mémoire involontaire in Proust, intitolata: Da un piccolo discorso su Proust tenuto in occasione del mio quarantesimo compleanno, nella quale è già possibile riconoscere con estrema esattezza la fisionomia di quel concetto di “immagine dialettica”, che Benjamin svilupperà nella sezione introduttiva del libro incompiuto sui Passages parigini.

Sulla nozione di mémoire involontaire: non solo le sue immagini giungono inattese: piuttosto, in essa si tratta di immagini che non abbiamo mai visto prima che ci ricordassimo di loro. Ciò è tanto più evidente in quelle immagini nelle quali — proprio come in taluni sogni — possiamo vedere noi stessi. Stiamo dinnanzi a noi proprio come eravamo un tempo in un lontanissimo passato da qualche parte, senza che però ci vedessimo. E quelle che riuscivamo a vedere sono proprio le immagini più importanti — quelle sviluppate nella camera oscura dell’attimo vissuto. Si potrebbe dire che ai nostri istanti più profondi è stata unita una piccola immagine, una foto di noi stessi, come nei pacchetti di sigarette. E quella vita la cui immagine scorrerebbe, come si sente dire, dinanzi a chi muore o a chi versa in pericolo, si compone proprio di queste piccole immagini. Esse scorrono in rapida sequenza come quei quaderni — precursori del cinematografo — sui quali da bambini potevamo ammirare un boxeur, un nuotatore e un tennista nell’esercizio delle loro arti13.

Non interessa qui a Benjamin insistere sul carattere inatteso e improvviso della mémoire involontaire. Nel saggio su Baudelaire, questo aspetto era stato riconosciuto nel fenomeno dello choc, descritto come quella collisione improvvisa e accidentale con l’esterno, il cui urto suscita e ridesta il ricordo involontario. A Benjamin preme ben di più, invece, considerare il fatto che le immagini della mémoire involontaire non hanno in alcun modo un rapporto con un presupposto, con un originale. Queste “immagini che non avevamo visto prima che ci ricordassimo di loro” non sono perciò propriamente le immagini di un evento passato, di cui improvvisamente ci sovviene il ricordo, ma immagini che esistono soltanto nel ricordo e che prima di allora non sono mai apparse ai nostri occhi.
È appunto questo l’equivoco della mémoire involontaire. Essa non è il ricordo di un fatto della vita già trascorso, ma si tratta sempre, come diceva Bergson, di un “falso riconoscimento”. L’immagine che balena, per un attimo, nel ricordo involontario, per poi subito dileguare, quell’immagine, appunto, che credevamo di poter afferrare, per un breve istante, come l’immagine di un passato lontano e indeterminato del quale avevamo ormai perso la memoria, coincide in realtà perfettamente con la percezione del momento presente.
Quel che, nella mémoire involontaire, si annuncia come l’immagine di un già stato, di un attimo già vissuto, non è pertanto altro che l’immagine della vita stessa nella sua istanza presente, in cui passato, presente e futuro diventano del tutto indifferenti.

L’idea di fondo del Menone, secondo la quale il procedimento maieutico di Socrate ridesterebbe, nello schiavo, debitamente interrogato e sollecitato, il ricordo di una verità innata, che gli consentirebbe di riconoscere le più semplici e evidenti verità della geometria come se improvvisamente gli tornasse alla memoria qualcosa di già sempre noto, ma rimasto per lungo tempo assopito, è proprio l’esempio platonico per descrivere la struttura della conoscenza.
Nella Premessa gnoseologica anche la forma anamnestica è osservata da Benjamin a partire dal presupposto che l’idea platonica sia sempre “un che di linguistico”. La memoria è, anzi, sempre, al di là di ogni equivoco psicologistico, memoria del linguaggio.

È compito del filosofo ripristinare nel suo primato, mediante la rappresentazione, il carattere simbolico della parola, col quale l’idea perviene all’autotrasparenza, accordo che è l’esatto contrario di ogni comunicazione rivolta verso l’esterno. Ciò può avvenire giacché la filosofia non può pretendere di parlare nel senso della rivelazione, soltanto attraverso un ricordare che innanzitutto cerca di risalire a un’interrogazione originaria. Forse l’anamnesi platonica non è lontana da questo ricordo.Soltanto che qui non si tratta di una presentazione intuitiva di immagini; piuttosto, nella contemplazione filosofica, dal nucleo più intimo della realtà, si libera l’idea in quanto parola, parola che di nuovo pretende ai suoi diritti nominativi14.

Qualcosa di molto vicino alla mémoire involontaire è quindi alla radice di quell’argomento, universalmente noto, della reminiscenza, sul quale Platone avrebbe gettato le basi della sua teoria della conoscenza. Se non possedessimo già sempre e in maniera innata l’idea dell’albero o del cavallo, non potremmo mai riconoscere la nostra attuale percezione, come la percezione di un certo albero o di un certo cavallo. Ogni cosa si dà già sempre a comprendere “in quanto” qualcosa, solo perché è già in noi l’idea dell’albero, per esempio, o del cavallo. L’eidos corrisponde perciò a quell’evidenza primaria in cui ciascuna cosa si palesa e ogni conoscenza è, dunque, sempre un riconoscere, un ricordare.
Che ogni conoscenza sia anamnestica non significa però che ci si ricordi di qualcosa di già una volta conosciuto, che sia, poi, caduto in oblio. Secondo uno tra i più celebri oroi platonici, la verità (alétheia) è infatti l’apertura dell’anima a se stessa e questa primaria apertura è memoria, non di una cosa, ma della pura potenza del linguaggio stesso. In ciò, appunto, tutti i filosofi hanno tenuto ben distinto il ricordo dalla reminiscenza. Mediante la memoria il pensiero accede infatti al principio di ogni conoscenza, alla fonte stessa di ogni verità.

L’anima è già sempre caduta nel mondo e sulla terra. Ma quel luogo che, nel mito platonico di Er, si presenta come una patria originaria e immemorabile, indica, in verità, un luogo in cui non siamo mai stati o dal quale siamo già sempre tornati. L’anima non si ricorda di una vita anteriore, ma di sé nella sua istanza presente. Non si deve trascurare che l’anima è, per Platone, eterna, soltanto in quanto essa non è mai nata: non ha, in senso proprio, natura. Perciò centrale è, nel mito platonico della caverna, proprio la figura del ritorno. La conoscenza è un atto paradossale di rammemorazione di ciò che mai è stato, appunto nel senso che, nel ricordo, non è in gioco un passato o un presupposto ontico, ma il fatto stesso della conoscenza, la fatticità stessa del comprendere. Nel ricordo non si accede a un presupposto, ma si fa esperienza del principio anipotetico, come tale sempre liminare, di ogni conoscenza.

Preistoria

Nel suo scritto su Baudelaire, in totale sintonia con la questione di fondo affrontata qualche anno dopo nel saggio sull’opera d’arte, Benjamin osserva, col consueto acume, che se Proust paragonava i ricordi coscienti di Venezia ad un insipido repertorio di fotografie, è unicamente perché la fotografia sottrae ineluttabilmente alle immagini quell’aura di pienezza vivida e splendente che rimanda sempre all’autenticità dell’esperienza vissuta. Ma la mémoire involontaire ci porge invece, come l’ebbrezza o l’illuminazione profetica, l’immagine, non altrimenti attingibile, di quell’anteriorità che anticipa sempre ogni fatto della nostra vita come un presupposto immemorabile e che non è, perciò stesso, mai catalogabile tra le nostre attuali esperienze: “Stiamo dinnanzi a noi proprio come eravamo un tempo in un lontanissimo passato da qualche parte, senza che però ci vedessimo”.
Perciò, nella mémoire involontaire, Baudelaire riconosceva l’esperienza di una vie anterieure.

Le correspondances sono le date del ricordo. Non sono date storiche, ma date della preistoria. Ciò che rende grandi e significativi i giorni di festa, è l’incontro con una vita anteriore. Baudelaire l’ha messo in un sonetto che s’intitola, appunto, La vie antérieure. Le immagini delle grotte e delle piante, delle nuvole e delle onde, evocate dall’inizio di questo sonetto, emergono dalla calda nebbia delle lacrime, che sono lacrime di nostalgia15.

Nelle correspondances è in gioco, per Baudelaire, il ricordo impossibile di quella regione che Benjamin definisce preistorica: le “date del ricordo”, nell’anamnesi baudelairiana, “non sono date storiche, ma date della preistoria”. La vita anteriore è il regno dell’idea, che nella Premessa gnoseologica è associato da Benjamin alle “madri faustiane”, delle quali si dice che “rimangono oscure quando i fenomeni non si raccolgono intorno ad esse”16. Anche di questa preistoria Benjamin ci ha dato una chiave di lettura alquanto precisa nel quadro della sua filosofia della storia:

La pre- e post-storia di un fatto storico appaiono in esso grazie alla sua esposizione dialettica. E ancora: ogni fatto storico si polarizza e diventa un campo di forze in cui si svolge il confronto tra la sua pre- e post-storia. Si trasforma in questo modo, poiché l’attualità agisce dentro di esso. Per questo il fatto storico si polarizza secondo la sua pre- e post-storia sempre di nuovo e mai nello stesso modo. E lo fa fuori di sé, nell’attualità stessa; come una linea dal taglio di Apelle17.

Nel libro su Parigi Benjamin afferma che ogni immagine è temporale, “carica di tempo fino a frantumarsi”. Essa è sempre il salto fra una pre- e una post-storia. Da un lato, infatti, vi è in ogni immagine un mitologema statico come gli archetipi di Jung, dall’altro, in quella che Benjamin definisce immagine-dialettica — il cui modello è l’Urphänomen di Goethe —, l’immagine è sempre propriamente un’immagine temporale, un’immagine fatta di tempo. La temporalità dell’immagine non è quella della continuità irreversibile e lineare tra il passato e il presente, ma quella che unisce in una costellazione l’esser stato e l’ora, la protostoria e la poststoria di ogni fatto.

La dimensione preistorica è, per Benjamin, il luogo dell’eternamente dimenticato, da cui emergono anche i personaggi di Kafka, soprattutto quelli femminili. Di Franz Kafka, Benjamin scrive infatti:

“Credere nel progresso non significa credere che un progresso sia già avvenuto. Questa non sarebbe che una fede”. L’epoca in cui egli vive non significa per lui alcun progresso sugli inizi preistorici. I suoi romanzi si svolgono in un regno palustre. La creatura appare in lui allo stadio che Bachofen definisce eterico. Che questo stadio sia dimenticato, non significa che esso non affiori nel presente. Anzi, esso è presente proprio in virtù di questa dimenticanza18.

È proprio nella cornice della lettura benjaminiana di Kafka che il concetto del “preistorico” acquista un carattere paradigmatico sotto il profilo critico e appare infine in tutta la sua ambivalenza. Secondo le parole di Kafka, citate da Benjamin stesso: “Credere nel progresso non significa credere che un progresso sia già avvenuto. Questa non sarebbe che una fede”. Il senso di questa citazione deve essere ricondotto alla critica che Benjamin muove alla categoria socialdemocratica del “progresso” nelle Tesi di filosofia della storia. La critica del progresso parte dal presupposto che la storia non procede lungo la linea retta di un processo irreversibile, secondo la successione di un tempo vuoto e omogeneo. La storia non tende a una meta, secondo un nascosto disegno teleologico (in cui la storia in nulla si distinguerebbe dalla natura), né è determinata da una fatalità. Al centro di entrambe le figure è, infatti, riconoscibile un’idea della storia come un irreversibile concatenamento di eventi, mentre in quella che Benjamin, negli appunti del libro su Parigi, chiama la “dialettica dell’immobilità”, ciascun fatto storico viene trattenuto tra una pre- e una post-storia e viene così interrotto il concatenamento dei fatti, il continuum irreversibile. Nell’immagine dialettica il fatto cessa di apparire come qualcosa di incontrovertibile. L’immagine dialettica è la catastrofe del tempo vuoto e lineare, in quanto, di ciascun fatto, essa rimette sempre in gioco, per Benjamin, il passato contraffattuale — la preistoria — e il futuro anteriore — la post-storia.
In questo senso la storia è per Benjamin: “non solo una scienza, ma anche e non meno, una forma del ricordo. Ciò che la scienza ha «stabilito», può essere modificato dal ricordo. Il ricordo può fare dell’incompiuto (la felicità) un compiuto e del compiuto (il dolore) un incompiuto”19.

Gesto

Perciò ogni piccolo gesto, nell’opera di Kafka, è come l’intero spostamento di ere cosmiche.
Proprio in quanto si rapporta alla regione ctonia e palustre della preistoria, che Bachofen intendeva come l’apparire della creatura allo stadio eterico, l’istanza poetica di Kafka è decreativa, propriamente distruttiva, come dimostrano le sue volontà testamentarie nelle quali egli ordinava la totale distruzione delle sue opere. Ma proprio in questa distruzione di ogni traccia e di ogni memoria dell’opera, che sottrae l’opera alla trasmissione, è in gioco sempre, altresì, una sorta di paradossale redenzione. Perché soltanto quando ciascuna opera sarà tornata a quella regione del dimenticato, con la quale era fin da principio in rapporto, soltanto allora il dimenticato potrà affiorare come tale, non nascondersi più. La preistoria delimita la soglia estrema di ogni mistero.
“Ecco perché nessuna opera d’arte può sembrare del tutto libera e viva senza diventare pura apparenza e cessare di essere opera d’arte”20. È proprio in tale esposizione, che la poesia interrompe l’infinita catena magnetica che la lega alla sua vocazione. Quel che Benjamin chiama privo d’espressione non è se non l’esposizione del limite del linguaggio stesso. Nel punto in cui il linguaggio non esprime più nulla, e si interrompe ogni voler dire, il destino musaico della parola è consegnato compiutamente al regno del dimenticato. È questo appunto, per Benjamin, il puro gesto. Il “privo d’espressione” è, infatti, nel saggio su Kafka, il gesto. Il gesto è ciò di cui la legge non può più decidere, giacché esso indica il punto limite in cui la legge è dimentica di sé. Il gesto è, propriamente, l’indecidibile, ossia la relazione pura e semplice tra il non linguistico e il linguaggio.

Max Brod dice: “Invisibile era il mondo dei fatti che contavano per lui”, è certo che, per Kafka, più invisibile di tutti era il gesto. Ogni gesto è un evento, si potrebbe quasi dire un dramma a sé. La scena su cui questo dramma si svolge è il theatrum mundi, di cui il cielo costituisce lo sfondo. Ma questo cielo è solo lo sfondo: e investigare la sua legge propria sarebbe come voler apprendere il fondale dipinto di una scena in una galleria di quadri21.

È un gesto in qualche misura teatrale, quello che qualifica la finzione di Ulisse, nel celebre racconto di Kafka dal titolo “Il silenzio delle sirene”. Nel racconto di Kafka, le sirene appartengono infatti al “mondo del mito”, come scrive Benjamin, che è “infinitamente più giovane del mondo di Kafka”. Alle lusinghe del canto delle sirene, come scrive Benjamin, né Ulisse, né Kafka stesso hanno mai prestato ascolto o, quantomeno, non hanno mai mostrato rispetto ad esse alcun cedimento. Entrambi sapevano, secondo le parole di Otto, che “il mito e lo Sprachgesang sono in fondo un’unica e medesima cosa”22 e non avevano perciò dubbi sul fatto che anche il mitico canto col quale le sirene avrebbero voluto incantarli, non era che una misera finzione. Perché entrambi avevano capito che le sirene, come recita il passo del racconto: “hanno un’arma ancor più terribile del loro canto, ed è il loro silenzio”.
Alle false e giovani lusinghe del mito, il vecchio Ulisse, che appartiene ad un regno molto più antico, risponde dunque a sua volta con la propria astuzia, escogitando trucchi ancor più sottili. Come si legge nel breve racconto, egli “era così ricco di astuzia, era una volpe così fina, che neppure la dea del destino sapeva penetrare nel suo intimo. Forse, sebbene ciò sembri superiore all’intelligenza umana, egli si è ben accorto che le sirene tacevano, e soltanto a guisa di scudo ha opposto ad esse e agli dei quella commedia”.

La finzione del mito non è infatti un banale trucchetto. Il silenzio in cui ogni mito si inabissa appare ancora più pericoloso del canto, in quanto è proprio la forma e la fonte prima del canto. Nel mito, sia Benjamin che Kafka riconoscevano quella muta potenza del canto che si mantiene in rapporto al linguaggio proprio in forza della sua originaria esclusione. Se mythos equivale a mutus, secondo quel che diceva Vico, allora davvero, nel racconto di Kafka, Ulisse “è sulla soglia che divide il mito e la favola”23. La favola in cui animali e cose acquistano un linguaggio è già “il ricordo della vittoria” sulla muta potenza del mito. Questa vittoria è la vittoria del gesto. Il gesto è il linguaggio stesso nel suo limite estremo, nel suo confinare col privo d’espressione. Ulisse, nella sua vocazione teatrale, descrive la soglia tra il non linguistico e il linguaggio, tra il mito e la fiaba, senza precipitare dal crinale che tra essi si spalanca, senza cadere nel doppio tranello delle sirene. La muta potenza del linguaggio, ormai, se l’è lasciata per sempre alle spalle, così come le sirene adesso scompaiono agli occhi di Ulisse e “proprio mentre gli erano più vicine, egli già non sapeva più niente di loro”.

Quando Benjamin, nelle sue note sui surrealisti, proponeva di sostituire all’ebbrezza estatica delle droghe o dell’alcool, una sorta di “illuminazione integralmente profana”, intendeva con ciò indicare qualcosa di ben diverso dall’epifania di un istante magico ed eccezionale. L’illuminazione profana nulla ha a che fare, quindi, con un momento eccezionale, ma è qualcosa come un contegno del pensiero e dei gesti, non diverso da quell’Agudeza di Gracián, di cui Benjamin, non a caso, aveva fatto suo il motto: “Metti sempre il tempo dalla tua parte”. L’affermazione di Gracián doveva rappresentare, per Benjamin, qualcosa di molto vicino a una massima di saggezza pratica. La stessa saggezza profana, Benjamin l’aveva trovata in Leopardi, il cui nome è curiosamente associato, in una recensione dei Pensieri pubblicata nel 1928, proprio a quello di Baltasar Gracián. Al fine di introdurre Leopardi ai lettori tedeschi, il poeta italiano è stato ripetutamente messo a confronto con Hölderlin, secondo quanto afferma Benjamin nella recensione, e ciò non a torto, visto che si poteva facilmente riconoscere un’affinità profonda tra i due nella “dolorosa purezza della loro vita e del loro creare”. Tuttavia, se Hölderlin incarna il tipo del poeta contemplativo e il suo gesto, il suo contegno rispetto alla vita, è quello “dell’abbandono e della devozione”, quella di Leopardi è una vera e propria ribellione.

Al tipo contemplativo e rassegnato del pessimista nel poeta se ne contrappone un altro: il pratico paradossale, l’angelo ironico. Esso spalanca forse interamente gli occhi nella maschera funebre (riprodotta nel libro). Perché per lui la realizzazione di ciò che è giusto in questo mondo pessimo non è soltanto qualcosa di eroico, ma richiede costanza e sagacia, scaltrezza e curiosità. Sono questi intrepidi esperimenti con l’esplosivo “mondo”, che rendono i Pensieri così avvincenti. In effetti il loro moralismo stridulo e distruttivo è vicino allo spagnolo Gracián più che a ogni altro24.

Se si prende, a caso, tra i molti, uno dei Pensieri di Leopardi, si nota come il grande poeta sia veramente prossimo al tipo del “pratico paradossale” e come l’esperienza poetica sia in realtà indiscernibile dall’uso della parola.

Dettato

La filosofia è una pratica di discorso che comporta sempre, per Platone, una critica radicale del linguaggio stesso e, in primo luogo, una critica dell’idea del linguaggio come ispirazione musaica. L’ispirazione corrisponde, per Platone, a quella catena magnetica, descritta nello Jone, che mantiene in rapporto l’ascoltatore al rapsodo, il rapsodo al poeta e, infine, il poeta alla Musa stessa, quale fonte ultima di ogni dettato25. Platone, che esilierà per sempre i poeti dalla polis, era stato anche lui, un tempo, poeta, ma, improvvisamente catturato dalla voce di Socrate, aveva poi ripudiato energicamente la poesia e, senza alcuna esitazione, aveva gettato alle fiamme tutte le sue tragedie per seguire il nuovo maestro lungo gli impervi sentieri della filosofia. La voce di Socrate era in tutto simile a quella delle cicale, ma il logos che in essa trovava espressione doveva risultare, all’orecchio di Platone, più suadente e ammaliante del canto di mille sirene. Platone, che rinnega la poesia come un peccato di gioventù e propone, anzi, più di ogni altro, una radicale critica filosofica della poesia e dell’arte, è tuttavia lo stesso che, in un celebre passo del Fedone, definisce la filosofia come mégiste mousiké26, come musica suprema.

Nella celebre conferenza romana del 1935 su Hölderlin e l’essenza della poesia, Heidegger commenta due frammenti di Hölderlin, il primo estratto da un lettera indirizzata alla madre nel gennaio del 1779 e il secondo, di datazione incerta, ma che si suppone però sia di appena un anno successivo.
Postulato che la poesia di Hölderlin sia: “portata — come scrive Heidegger — dal suo destino a cantare l’essenza stessa della poesia”27, i due frammenti citati all’inizio della conferenza romana devono riguardare, per l’appunto, il rapporto del poeta col linguaggio stesso.
Il primo, estrapolato dalla lettera scritta da Hölderlin di suo pugno alla madre, suona: “Dichten: Dies unschuldigste aller Geschäfte” (Poetare: la più innocente di tutte le faccende), il secondo, in netto contrasto, anzi, agli antipodi del precedente, recita: “Darum ist der Güter Gefährlichstes, die Sprache dem Menschen gegeben... damit er zeuge, was er sei...” (Perciò è dato all’uomo il più pericoloso dei beni, il linguaggio... affinché egli attesti ciò che egli è).
Come si può conciliare il fatto che il linguaggio sia, nel contempo, “la più innocente delle faccende” e “il più pericoloso dei beni”? Da un lato, come scrive Heidegger: “il poetare si presenta nella modesta figura del gioco. Inventa liberamente il proprio mondo d’immagini e rimane immerso nel regno dell’immaginario. Questo giuoco si sottrae in tal modo alla serietà delle decisioni, che in ogni momento si rendono, in un modo o nell’altro colpevoli”28. Dall’altro, l’esperienza del linguaggio è una libera decisione per l’essere. “Il linguaggio è il più pericoloso dei beni” in quanto testimonia dell’esistenza stessa dell’uomo e della sua appartenenza alla terra.

“Questa appartenenza consiste nel fatto che l’uomo è l’erede e il discepolo di quella interiorità, secondo la quale tutte le cose contrastanti sono tenute separate e insieme congiunte. L’attestazione dell’appartenenza a questa interiorità avviene mercé la creazione di un mondo e il suo apparire, e altresì mercé la sua distruzione e la sua caduta. L’attestazione dell’esistenza umana, e quindi la sua vera e propria attuazione, proviene dalla libertà della decisione. Questa afferra il necessario e si pone nei vincoli d’un supremo comando. L’esser testimonio della propria appartenenza alla totalità di ciò che esiste, si attua come storia. Affinché però sia possibile la storia è dato all’uomo il linguaggio. Esso è un bene dell’uomo”29.

La poesia non è soltanto un puro gioco, ma è innanzitutto attestazione dell’essere e, come tale, essa comporta sempre una decisione. Nel primo significato, la poesia si mostra come un comportamento inoperoso, disimpegnato e impolitico: “Poetare è perciò completamente innocuo. Ed è anche privo di effetto, perché rimane un mero dire e parlare. Non ha niente a che fare con l’azione, che fa presa immediatamente nel reale e lo trasforma. La poesia è come un sogno, non realtà: un gioco fatto di parole, non un’azione seria”30. Nella misura in cui si sottrae alla decisione: “La poesia è innocua e senza effetto”. Nel secondo significato, invece, il linguaggio è dato all’uomo “affinché attesti ciò che egli è”, affinché, mediante il linguaggio, si decida del suo destino storico e della sua essenza politica: “l’attestazione che viene dell’esistenza umana, e quindi la sua vera e propria attuazione, proviene dalla libertà della decisione”. In quanto: “proviene dalla libertà della decisione” il linguaggio si presenta allora come un dire originario, come un mythos, che a priori decide il discrimine tra la natura e la storia.

Nella conferenza del 1935, all’esperienza poetica come jocus, da Heidegger considerata impolitica e innocua in quanto sottratta fin da principio alla decisione, si contrappone, come l’altra faccia della stessa medaglia, un’esperienza del linguaggio come dono o destino. Questa esperienza in se stessa storica e, nella massima misura, politica — che Heidegger pone proprio sotto l’indice della decisione.
Il concetto di decisione costituisce, come ben sappiamo, uno dei termini chiave di Essere e Tempo. Per Heidegger la decisione è sempre decisione rispetto a una possibilità che non è mai una possibilità tra le altre, ma corrisponde alla possibilità più propria irrelata e insuperabile dell’esistenza. Questa possibilità, l’unica certa, seppur indeterminatamente certa, dell’esistenza, è la possibilità della morte, che Heidegger dice corrispondere all’impossibilità dell’esistenza in generale. Poiché il linguaggio ci chiama a una decisione che è decisione per la vita o la morte, allora esso è, veramente, come dice Hölderlin: “il più pericoloso dei beni”, e l’esperienza del linguaggio, in quanto pone in bilico la vita stessa, comporta la forma più estrema del rischio.
Poiché, inoltre, decide per quella possibilità estrema che è, in realtà, già sempre eccepita dalla vita, la decisione riguarda sempre il caso limite, il caso d’eccezione.
Nell’ambito del pensiero politico, più o meno negli stessi anni in cui Heidegger poneva mano alla sua principale opera filosofica, Schmitt collocava nella “decisione” la nozione chiave della sovranità. Sovrano è appunto, per Schmitt, colui che può, in ogni attimo, sospendere la legge e dichiarare lo stato d’eccezione. La sovranità non è altro che il monopolio legittimo della decisione sul caso d’eccezione. Mobilitando un concetto di Kant, Schmitt pensa, infatti, la decisione come concetto limite della sovranità31.

Il poetare corrisponde a ciò che Vico aveva identificato, nella seconda sezione della Scienza nuova, con il termine greco mythos: “«Logica» vien detta dalla voce logos, che prima e propriamente significò «favola», che si trasportò in italiano «favella» — e la favola da’ greci si disse anco mythos, onde vien ai latini «mutus» —, la quale ne’ tempi mutoli nacque mentale, che in un luogo d’oro dice Strabone essere stata innanzi della vocale o sia articolata: onde logos significa idea o parola”. Assodato che il mythos è, in senso lato, un sinonomo di logos, che indica anzi la: “«vera narratio», o sia il «parlar vero», che fu il «parlar naturale» che Platone prima e dappoi Giamblico dissero essersi parlato una volta nel mondo”, Vico rileva, nel passo citato, il comune etimo tra il termine greco mythos e il termine latino mutus che sembra rimandare a una sfera di significato opposta a quella della ‘parola’, ossia alla mutezza e al silenzio.

Se, nella sua riabilitazione moderna, soprattutto da parte dei romantici e di Schelling, il mito indica, da un lato, non solo un dire, ma un dire tautegorico e originario che coincide con l’atto di fondazione della comunità mediante il racconto delle origini, non va trascurata tuttavia questa parentela semantica, già messa in evidenza da Vico, tra il mito e ciò che, come la natura stessa, è muto. Il termine deriva, infatti, dalla radice indoeuropea mu, che significa letteralmente “stare a bocca chiusa”. Nell’idea del linguaggio poetico come mito, la lingua, l’atto di parola è perciò concepito in rapporto al silenzio, ma il silenzio non è tuttavia da intendere qui come qualcosa di opposto ed estraneo alla parola, bensì come la parola stessa in quel discrimine tra natura e cultura, tra potenza e atto, che ne manifesta l’istanza originaria. Nel mito è in questione il presupposto non linguistico della parola, che si rivela sempre non come una cosa, ma come la stessa potenza mitante del linguaggio. Si tratta di concepire, qui, come scrive Vico: “la lingua santa ritruovata da Adamo, a cui Iddio concedette la divina onomathesia ovvero l’imposizione dei nomi alle cose secondo il nome di ciascuna”. Il mito è la parola in quanto essa rimane supposta e non detta in ogni parola.

La generazione richiama l’origine e l’origine è sempre, in ultima istanza, natura: natura come madre, quindi, e madre come lingua. Soltanto perché ha il dono della lingua e può nominare le cose in quanto tali, Adamo può portare a compimento il disegno della creazione. Ma dalla dimora originaria in una lingua di puri nomi, Adamo è già sempre decaduto dal momento stesso che viene al mondo, dal momento che, come il mortale e come il parlante, egli si trova, senza voce, nel cuore del linguaggio, abbandonato e gettato nel linguaggio senza alcuna possibilità di fare esperienza del linguaggio stesso (né delle cose fuori del linguaggio).
Può aiutare nella lettura di questo problema, quanto Benjamin aveva affermato, col solito acume, di Bachofen e, soprattutto, del Mutterrecht, sicuramente l’opera principale dello storico e del mitologo di Basilea: “Ciò che è stato storicamente, ritorna, con la morte nell’ambito della natura, e ciò che è stato naturalmente ricade infine con la morte nell’ambito della storia”. La lingua è lo iato, che separa, fin da principio, la natura dalla storia. Detto altrimenti, se ogni lingua è lingua morta, eterno tramontare della lingua nella parola, nel già detto delle lingue grammatiche, allora storico è il momento in cui la muta natura, mediante la morte, trapassa nella lingua, e linguistico è il momento, il sottile diaframma, in cui , mediante la morte, ciò che è stato storicamente ritorna nella natura. È questa, per Benjamin, la struttura del mito: generazione della vita nella lingua, mitopoiesi della verità, racconto fondativo, traditum. Perciò stesso il mito è il luogo del sacro: fondazione della nuda vita, per se stessa infondata, in una nuova nascita, che sempre corrisponde ad un sacrificio, alla lettera, ad un atto contro natura.

Il mito, come aveva detto Schelling, è tautegorico e il linguaggio, nella sua potenza mitante, è propriamente la fondazione dell’essere. “In quanto gli Dei — scrive Heidegger a proposito di Hölderlin, conducono la nostra esistenza al linguaggio, noi penetriamo nella sfera della decisione”32. In quanto è in rapporto con la decisione, che ci mostra il linguaggio stesso: “non come un guadagno meritato, ma come un dono”, la poesia ha un significato originariamente storico, corrisponde cioè all’atto stesso di fondazione della storia. “La poesia è il principio che fonda la storia e perciò non soltanto un fenomeno della cultura e non solamente la mera espressione dell’«anima di una civiltà»”33.
La poesia, come lingua originaria della decisione e del destino, come dote e missione storica data all’uomo da adempiere mediante il linguaggio, fonda propriamente la natura politica di un popolo; come scrive Heidegger: “La poesia è il linguaggio originario di un popolo”.

Dittatura

La giustizia corrisponde a un dettato. Secondo Benveniste, è facile riconoscere tra l’espressione díke e il verbo deiknumi, che in greco significa indicare, mostrare, una profonda ed intima parentela semantica34. Come ha mostrato Carl Schmitt, questa parentela trova attestazione in un termine della politica come quello di dittatura, col quale si designa solitamente una forma di potere assoluto e totalitario.
Secondo il suggerimento di Schmitt, se si spoglia però il termine dalla sua comune accezione, nella dittatura è sempre in primo luogo in questione un dettato: dicator est qui dictat35. La dittatura non indica allora una certa forma del potere, particolarmente odiosa e tirannica, dispotica e illiberale, bensì la struttura stessa di un qualunque potere in quanto potere politico. Per Schmitt “politico” è infatti, in senso stretto, quel potere che si attesta sulla sovranità stessa del nomos, in quanto sovranità — comunque assoluta — del suo puro dettato. La dittatura del nomos, così concepita, nulla ha a che fare con la barbarie di una società arcaica, dove viga lo spirito di vendetta e la faida, né con la tirannia dispotica di un singolo uomo che, mediante la forza, raccolga interamente nelle sue mani il potere della decisione di vita o di morte su tutti gli altri. È piuttosto in gioco, qui, il carattere decisivo della legge in quanto tale, il potere, l’autorità e la vigenza del nomos stesso.
Per Schmitt, è sempre e in ogni caso il nomos che è sovrano. Così egli riabilita il significato di quel frammento di Pindaro, ripreso e interpretato da Platone, secondo il quale, non colui che fa ed esercita la legge è in senso proprio il sovrano, ma la legge stessa nella sua intrinseca obbligatorietà. Ogni dettato politico, mediante cui si esercita la sovranità, è dettato del nomos. Perciò alla legge è a priori dovuta osservanza e ubbidienza incondizionata. Quest’ultima è in senso proprio la condizione stessa d’esistenza della legge, la legittimità presupposta in ogni ordinamento giuridico, su cui si fonda l’orizzonte stesso della legalità.

Il traditum della legge altro non è se non la tramissione della sua stessa trasmissibilità, della sua potenza a trasmettere. È in questo senso che la legge coincide completamente col suo dettato. Il dettato è quanto, continuamente tradito, rende tuttavia possibile una tradizione. Esso non indica mai un contenuto intralinguistico, ma l’apertura del linguaggio stesso.
Se questa potenza risulta sottratta, come tale, ad ogni tramandamento, essa è ciò che, rimanendo non detto, in ogni istanza di linguaggio, destina quest’ultimo a una tradizione.

Siamo anche qui di fronte alla struttura di un dettato, così come si presenta nello Jone platonico, ossia all’idea di una catena magnetica che tiene rapiti, in un comune ascolto della Musa, il poeta, il rapsodo e l’ascoltatore, immagine dell’inaccessibilità del luogo del linguaggio, della trascendenza dell’istanza di linguaggio su ogni contenuto intralinguistico. Il poeta è appunto colui che rapito, in ascolto della musa, significa lo stesso che essa dice, traduce e tradisce in tal modo il suo dettato. Come la poesia — la Dicthung — indica l’esperienza della partizione impartecipabile dell’istanza di linguaggio, così il diritto indica, sotto il profilo politico, la trascendenza del dettato, come dote, parte assegnata, in ultima istanza destino. Non dimentichiamo che anche Platone, nello Jone, parla, a proposito della vocazione poetica, di una theia moira.

Si tratta, in altri termini, come ben ha evidenziato Philippe Lacoue-Labarthe ne La fiction du politique, di riconoscere un nesso “filosofico” tra arte e politica. È d’altra parte in questo nesso, non sufficientemente interrogato, che si nasconde il significato della filosofia di Heidegger, nonché della sua adesione al nazismo.
Su quel fatto decisivo della storia dell’occidente che fu la cosiddetta “soluzione finale”, presentato come il normale adempimento di un progetto di politica amministrativa e di igiene sociale, Heidegger mantenne, sotto il profilo del giudizio etico e politico, un vergognoso riserbo. Non è vero però che egli non si pronunciò mai sulla questione. In una delle conferenze di Brema sulla tecnica della “soluzione finale”, Heidegger abbozza, anzi, un commento assai crudo:

L’agricoltura è adesso un’industria alimentare motorizzata, nella sua essenza la stessa cosa della fabbricazione di cadaveri nelle camere a gas e nei campi di sterminio, la stessa cosa dei blocchi e della riduzione di paesi alla fame, la stessa cosa della fabbricazione di bombe all’idrogeno.

Questa breve battuta non può non lasciare attoniti tutti coloro che, parlando di “Olocausto”, si ostinano a non vedere che il fatto in questione non può essere giudicato, come scrive Lacoue-Labarthe, facendo richiamo a: “non si sa quale meccanismo «vittimario» arcaico”36. Nella pura e semplice eliminazione degli ebrei, pianificata e attuata, senza alcun cerimoniale, con le stesse macchine e i medesimi sistemi industriali impiegati per l’eliminazione dei rifiuti e contro la proliferazione dei parassiti, non vi è alcun aspetto sacrificale. Come scrive Lacoue-Labarthe, proprio in questa totale assenza di sacrificio, in questa totale assenza di rituale, è possibile riconoscere, nella sua nudità, quell’“operazione di pura igiene o di sanità (non solo sociale, politica, religiosa, culturale, razziale, ecc., ma simbolica)” che non ha precedente alcuno nella nostra storia. L’unicità dell’istituzione dei campi di sterminio e dei sistemi impiegati per attuare il progetto della “soluzione finale”, consiste invero nel fatto che espressioni come “pidocchi” o “spazzatura”, con le quali, già in passato, venivano metaforicamente designati gli ebrei, sono ora prese alla lettera.

Questa eclissi della “metafora” conduce sicuramente al completo tracollo tutto l’investimento simbolico che l’occidente moderno aveva affidato all’arte. La preistoria di questo deperimento della funzione simbolica della lingua, che raggiunge il proprio compimento nelle moderne società di massa, è per Benjamin all’origine del “barocco”, che al simbolo sostituisce l’allegoria. La lettura benjaminiana dell’allegoresi barocca muove infatti dalle definizioni teoriche e dalle classificazioni del simbolo contenute nella Mythologie di Creuzer, soprattutto la distinzione tra il “simbolo artistico” e “quello religioso”37. Creuzer considera il primo come il simbolo per eccellenza, il cui paradigma è da rintracciare nella concezione classicista, winckelmanniana, della scultura greca.
È quindi “lo spirito di Winckelmann” alla radice dell’antitesi tra il simbolo plastico e il simbolo religioso: il paradigma plastico e artistico del simbolo supremo, che si identifica senza residui con la visione winckelmanniana della scultura greca, è interamente racchiuso nell’immagine degli dei della Grecia, in cui si celebra la pura potenza teofanica dell’immagine stessa.

Agalma

In uno scritto del 1962 dal titolo Agalma, eikon, eidolon, Karl Kerenyi prende una posizione netta nel dibattito sulla demitizzazione della religione, riaffermando proprio questo nesso tra simbolo e immagine, come la radice mitologica di ogni religione.
Non si può trascurare, infatti, quando si dibatte sulla demitizzazione, che: “Alla mitologia appartiene l’immagine, che il mitologo vede e descrive e il pittore o lo scultore rappresenta per mezzo della sua arte. L’immagine racchiude in sé il vero e il non vero, scopre e nello stesso tempo nasconde l’essere. L’immagine ha una superficie, ovvero — più esattamente — è una superficie, della quale si può sempre affermare, da un certo punto di vista, che inganna”38.
Ma il cristianesimo ha da sempre opposto energiche resistenze a tutti coloro che hanno tentato di ridurre il mistero della rivelazione e dell’incarnazione ad un mito, e Kerenyi non trascura affatto la fondatezza teologica e storica di tali obiezioni.

Il cristianesimo non può, senza rinunciare a se stesso, concedere che la sua storia sacra non sia accaduta nella carne, ma sia stato un mythos, non lo può neanche quando mythos è inteso nel suo significato più genuino, cioè come la parola vera che esprime l’essere; e tanto meno quando si tratta di mitologia, cioè della spiegazione variabile di un mythos, il quale visto storicamente, contiene sempre qualche cosa di vero frammisto a qualche cosa di non vero — e sotto questo punto di vista è paragonabile alla poesia.

Mentre la religione greca è mitologica in senso stretto, la religione cristiana non accetta invece neppure lontanamente l’ipotesi che l’evento che essa celebra sia soltanto un mito, un’immagine.

Come non si stancò di ripetere Tertulliano, rivolto contro i monofisiti, l’essenza della fede cristiana è riposta nel dogma dell’indiscernibilità, in Cristo, della natura umana e di quella divina. Colui che rinnega l’una o l’altra di queste nature, veramente indissolubili, cade nell’eresia, poiché la novità assoluta del messaggio cristiano sta proprio nel fatto che il Verbo si è fatto carne e che il corpo glorioso di Cristo è lo stesso corpo mortale. Accanto all’eresia ariana, che negava la natura divina del Gesù storico, si collocava, infatti, per Tertulliano, un fraintendimento della verità rivelata, altrettanto empio e forse ancora più pericoloso. Oggetto della polemica di Tertulliano è infatti proprio quella dottrina, che, sebbene accettasse senza riserve la natura divina del Cristo, non poteva, perciò stesso, concepire che egli avesse potuto realmente soffrire nella carne, fino alla morte, le strazianti torture che gli vennero inflitte, secondo la testimonianza degli evangelisti, e finiva, quella dottrina, per negare totalmente l’umanità di Cristo. I seguaci di questa tendenza ereticale, che faceva capo a Marcione, erano infatti definiti docetisti, dal greco doxa, che indica nella traduzione biblica dei Settanta, tanto l’apparenza sensibile quanto la gloria e lo splendore di Dio. Costoro sostenevano che tutte le atroci violenze che Cristo aveva patito fino all’agonia sulla croce, secondo la testimonianza dei Vangeli, non erano state altro che immagini e apparenze, liquidando così il mistero della passione della carne mortale di Cristo come un’immensa finzione, come una totale messa in scena. È proprio contro Marcione, dunque, che Tertulliano fa valere le ragioni del dogma, quando afferma: Falsa igitur et fides nostra, et phantasma erit totum quod speramus a Christo.

Nel suo saggio, Kerenyi affronta il problema della possibilità di una demitizzazione del cristianesimo muovendo proprio da tale sfondo problematico: il cristianesimo è una religione in se stessa demitizzante. Se il mito corrisponde in qualche misura sempre a un’immagine, la demitizzazione significa allora una “deimmaginazione”, atteggiamento, questo, che la cristianità greca ben conosce dal momento che la condanna del paganesimo è innanzitutto, già per il cristianesimo delle origini, rifiuto totale del mito, bando totale dell’idolatria. Come appunto scrive Kerenyi: “Il linguaggio dei Greci cristiani, la lingua medioevale e quella dei Greci moderni, non hanno altra parola per indicare il paganesimo che il termine eidolatreia”.
Il problema, tuttavia, non può essere posto correttamente, secondo Kerenyi, se non si chiarisce prima cosa si intenda quando si parla di immagine. In greco vi sono, infatti, tre termini ben distinti per designare l’immagine: eidoloneikon, e agalma, che mantengono appunto tre diversi significati.
“L’eidolon è in greco un’immagine che consiste unicamente in una superficie senza profondità”: l’ombra, il fantasma, la visione fallace. Eidola sono, per esempio, in Omero le ombre, le immagini delle anime che sono all’Ade, la cui sopravvivenza è, come osservava Rodhe, soltanto larvale. L’eidolon è una figura, una forma, un aspetto, che non ha alcuna consistenza cosale.
Il secondo termine della triade, l’eikon, indica invece sempre un’immagine mimetica, un simulacro, o meglio, un ritratto, che conserva quindi in ogni caso il rapporto con un originale, con un paradigma o un modello.

Kerenyi si richiama allo studio di Hans Willmas: Eikon, eine Begriffgeschichtliche Untersuchung zum Platonismus secondo cui il termine eikon ha sempre, in Platone e nei platonici, il significato di “simulacro”, di copia rispetto ad un paradigma: di qui l’accezione di iconicus, come terminus technicus della storia dell’arte, con cui si intende sempre il ritratto o comunque la relazione dell’immagine con un qualche referente.

Ma è l’ultimo tra i termini analizzati: agalma, quel che a Kerenyi preme di più definire nella sua speciale relazione con la sfera della religione e col mito. Con agalma i greci intendevano sempre, infatti, l’immagine e la statua del Dio. Nell’agalma potremmo facilmente riconoscere proprio quello statuto paradigmatico che Creuzer attribuiva al simbolo plastico winckelmanniano. In una cornice disciplinare ben lontana da quella dell’estetica, Kerenyi ci offre un contributo essenziale per capire questa assolutezza del simbolo plastico su cui si fondava il classicismo. Sebbene con agalma si intenda ancora un’immagine, essa non va in nessun modo confusa, tuttavia, né con la pura apparenza immateriale, né col ritratto, poiché l’immagine è il luogo stesso in cui il dio viene alla presenza.

L’agalma ha, sì, una superficie, ed è sempre una bella superficie, ma da ciò deriva sempre anche un’altra dimensione, la dimensione dell’evento. La superficie è qui la fonte di quello che la lingua chiama agalloagallomai e da cui derivano le formazioni più tarde, come agalliama e agalliasis, in latino exultatio, come in Luca I,14: estai charà soi kai agalliasis, erit gaudium tibi et exultatio. Alla base c’è sempre, verbalmente, la gioia considerata come un evento e identificata con la cosa che la suscita.

Kerenyi cita, a sostegno di questa sua tesi, il commento all’Eracle di Euripide di Ulrich von Wilamovitz-Moellendorff, nel quale si fa cenno all’iscrizione di una statua del VI sec. a. C., rappresentante un uomo, nella quale si legge: Chares eimì, agalma tou Apollonos: “Io sono Chares, statua e gioia di Apollo”. Il genitivo va inteso qui tanto in senso oggettivo che soggettivo, giacché l’agalma è la statua del dio, ma nel contempo è la stessa esultanza del dio per il semplice fatto di apparire. Queste immagini non sono perciò, in senso proprio, immagini cultuali: “Di un agalma e non di una pietra di culto non lavorata (argòs, lithos) si parlò per la prima volta quando la techne, cioè l’arte, aprì la fonte della gioia, una gioia di dio”.
L’agalma non è quindi un puro fantasma, né la copia di un originale, che rimarrebbe ancora nascosto dietro di essa, ma ciò in cui quel che altrimenti non potrebbe mai presentarsi viene per la prima volta all’apparenza: non il simulacro, che rimanda ad un originale assente, ma qualcosa in cui l’essere è affatto indiscernibile dal suo modo di essere, dal suo manifestarsi. L’agalma è caratterizzato, anzi, come un’immagine che mantiene sempre, per così dire, uno statuto cosale dal quale è inseparabile.
Come statua, l’agalma è qualcosa dunque di solido e reale, a differenza dell’eidolon, che è mera parvenza eternamente dissolventesi nel nulla. Ma l’agalma è differente anche dall’eikon. Anche quest’ultimo può trovarsi in una statua e mantenere comunque un qualche involucro cosale, ma il suo statuto di immagine consiste unicamente nella sua somiglianza a qualcos’altro, a un paradigma. Anche in questo caso l’immagine è una pura somiglianza immateriale e indica pertanto sempre una qualità a ben vedere anch’essa separata dalla cosa stessa. Kerenyi afferma infatti che nell’eikon vi è sempre una somiglianza storica, notando, di sfuggita, che nella traduzione veterotestamentaria dei Settanta, il termine per designare l’immagine in cui è creato l’uomo, cioè Adamo, è appunto eikon (quando Dio ingiunge di non farsi di lui alcuna immagine i Settanta impiegano, invece, l’espressione eidolon).
Nel suo studio sullo Zelem, Scholem ha mostrato come la somiglianza in cui l’uomo è creato, secondo il celebre passo di Genesi I, sia in verità sciolta da ogni relazione iconica con l’originale, e nelle dottrine esoteriche essa prenda corpo nella figura dell’angelo Daena, che è una sorta di doppio celeste creato accanto a ciascuna creatura, vicina, in effetti, al daimon neoplatonico o al corpo pneumatico degli gnostici.

La cosa

L’opera d’arte è sempre, sotto un certo profilo, una mera cosa. È anzi in questa pura e nuda cosalità che consiste, per Benjamin, il significato “cultuale” dell’opera d’arte, giacché ogni scultura o dipinto mantiene sempre uno statuto oggettuale e, perciò stesso, si presenta come “qualcosa” di unico e irripetibile. È infatti la pura esistenza di qualcosa come la Madonna del parto di Piero o come il Mosé di Michelangelo che suscita in noi lo stupore. Lo stupore è infatti sempre stupore di fronte alla fatticità. Se la meraviglia, dai greci fino a Cartesio, mantiene un carattere liminare nel sistema delle passioni, è perché correlato di questa tonalità emotiva è il puro che è, l’esistenza stessa, al di qua di ogni determinazione. Secondo una lunga tradizione, che va da Platone a Wittgenstein, mediante lo stupore, che segnava per Cartesio il limite delle passioni, siamo accordati, in senso musicale, al puro essere. Perciò, il problema dell’arte comporta innanzitutto una questione di ordine ontologico, intimamente connessa con la filosofia prima, di cui l’estetica, nel suo significato moderno, ossia come disciplina del bello e dell’arte, non è, da sola, in grado di venire in chiaro.

Nel saggio su L’origine dell’opera d’arte Heidegger muove dalla constatazione che l’opera d’arte mantiene comunque uno statuto “cosale” (dinghaft) che l’accomuna ai semplici oggetti — a ciò che Heidegger, in Sein und Zeit, chiamava le semplici presenze (Vorhandensein) —, ossia, secondo una più letterale traduzione del termine tedesco, alle cose che sono ogni giorno a portata di mano e delle quali ci serviamo abitualmente nelle nostre attività pratiche.

Tutti conoscono opere d’arte. Edifici e monumenti artistici ornano le piazze, opere d’arte si trovano nelle chiese e nelle case. Nelle collezioni e nelle esposizioni sono ospitate opere d’arte di diverse epoche e paesi. Se guardiamo le opere nella loro realtà immediata e senza preconcetti, si fa chiaro che esse si trovano lì dinanzi nella loro semplice presenza né più né meno delle cose. Il quadro pende dalla parete allo stesso modo di un fucile da caccia o di un cappello. Un quadro, per esempio quello di Van Gogh che rappresenta un paio di scarpe da contadino, passa da un’esposizione all’altra. Le opere sono spedite come il carbone della Ruhr e il legname della Selva Nera. Durante la guerra gli inni di Hölderlin erano impacchettati negli zaini accanto agli oggetti da pulizia. I quartetti di Beethoven sono disposti nei magazzini della casa editrice come le patate in cantina. Tutte le opere d’arte hanno questo carattere di cosa (dinghaft). Che sarebbero senza di esso?39

Possiamo collocare, in questo senso, l’opera d’arte accanto ad uno qualunque degli oggetti che sono ogni giorno a nostra portata di mano e dei quali facciamo uso abitualmente, un paio di scarpe, un ombrello, una lampada. Dopo tutto, come scrive Heidegger, anche le opere d’arte, osservate nella “loro realtà immediata”, non si distinguono da altri oggetti, ma come la scarpa o il martello, “esse si trovano lì dinanzi nella loro semplice presenza”40.
Ammesso che le opere d’arte mantengano questa cosalità, che le accomuna al carbone della Ruhr, Heidegger si preoccupa, però, di precisare che sarebbe alquanto “grossolano ed estrinseco” fermarsi a questa constatazione, in ultima istanza, alquanto triviale. “Con una simile visione delle opere d’arte possono aggirarsi in un museo gli spedizionieri e le donne delle pulizie. Noi dobbiamo prendere le opere quali appaiono a coloro che ne vivono e ne godono”.
L’opera d’arte non può quindi essere separata dalla cosalità e tuttavia essa si distingue dagli oggetti d’uso. Ma questa distinzione non ha nulla a che fare con: “la tanto invocata immedesimazione estetica”, poiché anche questa forma di sublime delibazione, che distingue il conoscitore, l’uomo di gusto, dalla donna delle pulizie o dallo spedizioniere: “non potrà mai prescindere dal carattere di cosa che inerisce all’opera”.
Senza dubbio, prescindere dalla cosalità dell’opera, non solo è impossibile anche per colui che è immedesimato nella contemplazione estetica, e sa ben discernere una sedia da una scultura di Donatello, ma è proprio questo puro stare a guardare, disinteressato e neutro, che i greci chiamavano theorein, quel che, per così dire, conserva l’oggetto nella sua pura cosalità.
L’esperienza del bello indica, per l’estetica moderna, un puro atto contemplativo che ha sempre, come suo correlato, la semplice cosalità, la nuda presenza di un “che”, di cui non è possibile rendere ragione, poiché si tratta in ogni caso di un’intuizione immediata. L’autenticità riposta nella nuda cosalità è anzi il presupposto stesso dello spectare moderno, dell’immedesimazione estetica dell’uomo di gusto.

a) È curioso che l’atto puramente contemplativo che costituisce il paradigma della coscienza estetica moderna, somigli in modo così impressionante a quella dimensione limite del fare, totalmente sciolta dai commerci col mondo, nella quale Aristotele aveva collocato il pensiero puro, la pura intellezione, inoperosa e disinteressata, quale funzione primaria dell’intelletto. Quando Heidegger parla di “immedesimazione estetica” sembra infatti alludere a ciò che Aristotele diceva dell’intelletto, ossia che, ogniqualvolta la sua potenza di intendere si attua, non avviene in realtà un semplice atto di riempimento intenzionale, mercé il dato comunque esterno della percezione, ma l’intelletto, che contiene già, seppur virtualmente, la forma intelligibile dell’oggetto, diviene totalmente indiscernibile dall’oggetto stesso. L’immedesimazione contemplativa, che Aristotele poneva come la più alta forma di vita dell’uomo, è contrapposta, infatti, totalmente alla sfera dell’esperienza pratica. Mentre il bios theoretikós, in cui si adempie il telos più proprio della vita umana, è per Aristotele lo sguardo disinteressato della pura contemplazione, il bios praktikós è innanzitutto attività pratica e uso.
b) Forse la più sottile e decisiva meditazione sull’ambivalenza dell’uso si trova nell’antropologia cristiana e soprattutto in Agostino. Accanto al concetto di uti, che rimane congiunto con la sfera dell’utilizzabile mondano, Agostino introduce la nozione di fruiQuid enim est aliud quod dicimus frui, nisi praesto habere quod diligis? (De moribus eccl., lib. I, c. 3; cfr. De doctrina christiana, lib. I, c. 2-4).
c) L’esistenza è inessenziale, come diceva Schelling, così come l’oggetto dell’esperienza estetica è sempre un “non so che”. Questa esperienza irriducibile alla conoscenza, il “non so che” come determinazione unicamente negativa del giudizio estetico, è, almeno a partire da Baltasar Gracián, il paradosso in cui le linee dell’estetica e quelle dell’ontologia si intrecciano fino a confondersi. È questo il problema di un’esibizione inesponibile della cosa nel linguaggio, a partire dalla quale la distinzione tra sensibilità e intelletto, tra ostensione e significazione, diventa una distinzione non più di grado, ma di funzioni dell’umana facoltà conoscitiva (un’eteronomia di potenze distinte, sensibilità e intelletto, che apre preliminarmente un crinale nel linguaggio stesso).
È l’esibizione di questa nuda cosalità, del puro che è indiscernibile dal come, dall’esser così o così, che conferisce all’oggetto un’aura. È questo l’incantesimo in cui è presa la cosa. Non un predicato in più, ma il surplus che l’esistenza della cosa stessa con tutti i suoi predicati significa rispetto alla totalità delle determinazioni dell’oggetto.
Quel soverchio della semplice posizione della cosa rispetto a qualunque sua determinazione presa separatamente non indica, però, più una cosa, una cosa supposta alla cosa, ma una potenza che è quella della cosa stessa e che è da essa indiscernibile. Il principio dell’arte è anipotetico in quanto non è mai presupposto all’opera, ma è posto in opera con l’opera stessa. Tale virtualità è anzi tutt’uno con l’effettualità e la cosalità dell’opera d’arte.

Ready-made

Come osserva Heidegger, nell’espressione “mera cosa” è in gioco piuttosto una privazione, che un attributo supplementare: l’estetica moderna ci ha abituato a concepire la differenza tra una cosa qualunque, un oggetto d’uso, come uno scolabottiglie, e una scultura di Canova, come la differenza tra qualcosa che rientra nell’orizzonte d’uso di un progetto mondano e qualcosa che è invece sospeso e incantato, staccato, in senso stretto, dalla sfera dell’utilizzabilità e dell’interesse pratico.
È in rapporto all’uso, che possiamo distinguere l’opera d’arte da una scopa o da un martello. Mentre le sculture del Canova sono custodite nei musei o nelle gallerie (esistono perciò soltanto nella sfera separata del giudizio di gusto, che è affatto disinteressato), il martello ha senso e significato, come dice Heidegger in Sein und Zeit, soltanto come mezzo in un certo rapporto con un fine pratico, che rientra sempre nell’orizzonte di appagatività di un mondo.
È in rapporto all’uso che l’oggetto si distingue dall’opera d’arte, poiché, sotto il profilo dell’essere, essi sono perfettamente indiscernibili.

È questo, appunto, il paradosso da cui muove Duchamp coi suoi ready-made. Ciò che costituisce il carattere peculiare dell’opera d’arte non è un più, ma un meno, rispetto agli oggetti d’uso. Essa è opera unicamente perché, a differenza di una scopa o di un martello, non serve a nulla e non significa perciò propriamente nulla. Per questa triviale ragione esporre qualcosa come uno scolabottiglie o una ruota di bicicletta in uno spazio artistico, stornandola dal suo contesto d’uso e di significato abituale, significa mostrare questa stessa cosa, che è comunque una cosa abituale, in ciò che ha di più inquietante, ossia nella sua nuda cosalità.
Il gesto di Duchamp, che non è più collocabile nello spazio dell’arte, è puro denudamento dell’arte, nella misura in cui mostra che quello dell’arte non è un prodigio, ma un ingegnoso nulla.

Il ready-made rovesciato, al quale Duchamp pensava, quando proponeva di usare un Rembrandt come un asse da stiro, non fa che rendere ancora più tagliente questo paradosso. Quel surplus che fa di un oggetto qualunque un’opera d’arte, quel che fa di essa qualcosa di autentico, ossia qualcosa di singolare, unico e irripetibile, è dunque proprio questa mera cosalità, questo nudo carattere della cosa, che accomuna un dipinto di Rembrandt a un asse da stiro.

Questo nulla, questa sorta di privazione, era nel passato il luogo in cui l’opera si ammantava di un significato magico e religioso. Secondo quanto afferma Benjamin nel suo saggio: “Ora, riveste un significato decisivo il fatto che questo modo d’esistenza, avvolto da un’aura particolare, non possa mai staccarsi dalla sua funzione rituale. In altre parole: il valore unico dell’opera d’arte autentica trova fondazione nel rituale, nell’ambito del quale ha avuto il primo e originario valore d’uso”41. Posto che, nell’hic et nunc, abbia luogo propriamente, come scrive Benjamin, quel “rituale secolarizzato, anche nelle forme più profane del culto della bellezza”, che, nella chiave della riflessione benjaminiana, prelude all’avvento dell’art pour l’art (e al moderno culto secolarizzato del bello estetico che sta alla base della moderna religione dell’arte), resta il fatto che l’opera, in questo suo statuto autentico e “cultuale”, non è che una “mera cosa” spogliata di ogni attributo.


Feticcio

L’aura è, appunto, per Benjamin ciò che manifesta l’hic et nunc di un’esperienza autentica delle cose: tanto le opere d’arte, come oggetti storici di una tradizione, quanto quelle che Benjamin chiama “oggetti di natura”, sono appunto “le ultime apparizioni di una lontananza, per quanto questa possa esser vicina”42. Al di fuori del medium che riproduce l’unicità di un evento in una molteplicità infinita di eventi e che rende indifferentemente più prossime tutte le cose, gli “oggetti di natura” ci parlano, al contrario, da una lontananza infinita, ogni diretta esperienza percettiva è tinta da una nota elegiaca e nostalgica, che ci proviene da una sorta di passato immemorabile.
Benjamin definisce, nel suo saggio, quel tipo di esperienze genuine e non mediate, che caratterizzavano la vita di un tempo: “Seguire, in un pomeriggio d’estate, una catena di monti all’orizzonte oppure un ramo che getta la sua ombra sopra colui che si riposa — ciò significa respirare l’aura di quelle montagne, di quel ramo”43.
Ma non va dimenticato che il problema del rovesciamento dell’esperienza abituale degli oggetti in qualcosa di lontano, alieno, e perturbante, si fa ancora più radicale proprio rispetto a quelle cose moderne, delle quali parlava Rilke, nella lettera scritta il 13 novembre 1925 a Muzot, che “ci incalzano dall’America” come “vuote e indifferenti, pseudo cose e aggeggi per vivere...”.
Se l’irrompere della merce, cui Rilke allude, ci espropria esattamente di quell’esperienza autentica dei nostri avi, per i quali, come egli scrive a Muzot, “una casa, una fontana, una torre loro familiare, un abito posseduto, il loro mantello, erano ancora qualcosa di infinitamente di più che per noi, di infinitamente più intimo; quasi ogni cosa era un recipiente in cui rintracciavamo e conservavamo l’umano”, allora non sono le vecchie cose, ma proprio le moderne cose riproducibili che ci espropriano da ogni abitudine e ci parlano da una lontananza infinita.
Contrapponendo all’aura delle cose autentiche, la riproducibilità tecnica, Benjamin, al quale si deve sicuramente riconoscere il merito di aver tracciato, col saggio del 1935, una lucida diagnosi del significato della perdita d’autenticità dell’esperienza contemporanea, sembrerebbe tuttavia aver trascurato proprio quel che diceva Marx, nella nota sezione del primo libro del Capitale dal titolo Il carattere di feticcio della merce e il suo arcano.
Quel che Benjamin dice dell’opera d’arte, ossia che, inserita sempre in una tradizione, essa conserva un carattere cultuale, può essere applicato, secondo quanto affermava Marx, anche al carattere della merce. Non è un caso che Marx indichi nella merce qualcosa come un “feticcio”.
Il termine portoghese feitiço, da cui l’espressione “feticcio”, mantiene stretti indissolubilmente assieme i tratti che caratterizzano le opere d’arte: il carattere magico cultuale e quello di cosa artefatta44.
In quanto feticcio, la merce conserva infatti un arcano, in cui si nasconde, per Marx, una nuova forma di idolatria, che è, per così dire, la radice ultima del sistema capitalistico mercantile. L’aura che la merce dona ai semplici oggetti d’uso, quel che Marx contrappone, come “valore di scambio” al “valore d’uso” degli stessi, è, sotto questo profilo, il presupposto metafisico e teologico che sta alla base dei moderni modi di produzione.
Secondo le parole di Marx, la merce si mostra infatti come “un groviglio di sottigliezze metafisiche e di capricci teologici”45: come feticcio essa mantiene, esattamente come le opere d’arte del passato, un tratto immateriale e arcano, una sorta di aura. Si potrebbe infatti caratterizzare la merce, secondo questa definizione marxiana, esattamente nello stesso modo in cui Benjamin descrive l’opera d’arte, ossia come ciò che manifesta, nella sua unicità, un carattere “rituale, dapprima magico, poi religioso”.

Ciò che all’opera offre un’aura magica è, rispetto alle “mere cose”, una determinazione unicamente negativa: ciò che accomuna l’opera alle “mere cose”, è il puro mirabile fatto della semplice esistenza singolare. Il paradosso è qui, per l’appunto, che l’elemento che fa dell’opera qualcosa di più nobile delle vili cose, non è affatto una determinazione in più, ma qualcosa di cui l’opera, in ultima istanza, manca.

Ma se la dimensione rituale del mondo capitalistico mercantile è quella di un eterno presente, in cui non parla nessuna tradizione e nessuna origine tramandabile, e si tratta perciò sempre di un rito senza mito, di una pura ripetizione, nel caso dell’opera d’arte parla invece sempre il mito dell’origine; come scrive Benjamin:”L’unicità dell’opera d’arte si identifica con l’integrazione nel contesto della tradizione”.
Ma se si osserva il problema in questa nuova cornice, allora, in ciò che Benjamin pensa come perdita d’aura è racchiuso un paradosso, ossia che l’aura dell’opera d’arte, dell’evento unico, non indica un di più, ma un di meno rispetto all’oggetto d’uso, a ciò che è sempre per statuto infinitamente riproducibile e surrogabile. Essa si qualifica come l’esuberanza di una privazione, nel senso per cui l’esistenza stessa è inessenziale, è un dono superfluo. Come nel potlac di Bataille e Mauss46, necessario non è mai per la vita l’essenziale, ma il superfluo, e l’intera vita si configura, allora, all’insegna del lusso e del dispendio. Se, nell’“aura” è in gioco questo dono, non di una cosa, ma della donazione stessa, essa è allora l’indice di una mancanza e di una perdita. Poiché non ha mai costituito un habitus: il “predicato reale” di un oggetto, ma ne ha semmai esibito la possibilità di essere e di non essere, l’aura non può decadere. Poiché, come si potrebbe perdere e smarrire, ciò che non si è mai avuto?

Architettonica

Quando, nelle sue Lezioni di Estetica, Hegel suddivide le singole arti e stabilisce, all’interno del suo sistema, il ruolo di ciascuna, egli ribadisce l’antico primato che Aristotele assegnava all’architettura, collocandola al primo posto. Nel sistema delle singole arti, l’architettura costituisce, secondo le parole di Hegel, “l’inizio motivato della cosa stessa”.
“Essa è l’inizio dell’arte, perché questa nel suo incominciamento in generale non ha trovato per la rappresentazione del suo contenuto spirituale né il materiale adeguato, né le forme corrispondenti, per cui deve limitarsi alla semplice ricerca della vera adeguatezza e accontentarsi dell’esteriorità del contenuto e del modo di rappresentazione”47.
Secondo il modello aristotelico, l’opera d’arte è sempre l’attuazione formale di una certa materia e il processo artistico si risolve in ogni modo nel portare all’atto, nel porre in opera, una determinata potenza naturale del sostrato. Aristotele definiva questa potenza del sostrato come una “potenza secondo il genere della materia”. L’arte è architettonica nel senso che pone innanzitutto un principio formale per la costruzione. Questo vale, in effetti, per tutte le arti. Facendo, per esempio, di un pezzo di legno, una lettiera, l’artigiano imprime, nella materia, una Gestalt. In questo processo, la forma non è che il termine di adempimento della materia stessa. L’abilità dell’artigiano non consiste perciò unicamente nel saper conferire una forma alla materia, ma suppone in primo luogo una conoscenza e un’esperienza dei materiali stessi, che sappia riconoscere, già implicita in essi, una determinata attitudine formale.
Perciò l’architettura, nella sua istanza originaria, si rapporta a qualcosa come una potenza generica, ad una materia grezza e informe; questa è già sempre però determinata rispetto ad una totalità, che costituisce fin da principio, seppur virtualmente, l’originaria impronta formale della materia stessa, considerata secondo la sua propria disposizione naturale.
“Il materiale di questa prima arte è ciò che in se stesso non è spirituale, la materia pesante, plasmabile solo secondo le leggi della gravità; la sua forma è data dai prodotti della natura esterna, uniti con regolarità e simmetria in un riflesso semplicemente esterno dello spirito”.

L’architettura è “l’inizio dell’arte”. Essa non sembra porre tuttavia alcunché, secondo le parole di Hegel, se non il principio e la misura per una ricerca.
L’architettura è presentata infatti da Hegel mediante determinazioni unicamente negative, poiché “questa nel suo cominciamento in generale non ha trovato per la rappresentazione del suo contenuto spirituale né il materiale adeguato, né le forme corrispondenti, per cui deve limitarsi alla semplice ricerca della vera adeguatezza e accontentarsi dell’esteriorità del contenuto e del modo di rappresentazione”. In questa chiave, l’architettura, che pur detiene un primato, non pone in opera alcun oggetto immediato, ma cerca piuttosto un criterio, che istituisca preliminarmente l’ordine armonico tra le parti di un tutto.




Concinnitas

Nel primo grande trattato moderno di architettura, il De re aedificatoria di Leon Battista Alberti, i criteri fondamentali che l’architetto deve rispettare sono infatti istituiti come vere e proprie leggi generali a priori, come norme che riguardano innanzitutto il metodo.
Tre sono le leggi fondamentali su cui si fonda per intero il metodo che andiamo indagando: il numero, ciò che noi chiameremo delimitazione (finitio), e la collocazione (collocatio). Ma vi è inoltre una qualità risultante dalla connessione e dall’unione di tutti questi elementi: in essa risplende mirabilmente tutta la forma della bellezza; e la chiameremo concinnitas, e diremo che essa è veramente nutrita di ogni grazia e splendore. È compito della concinnitas l’ordinare secondo leggi precise le parti che altrimenti per propria natura sarebbero ben distinte tra loro, di modo che il loro aspetto presenti una reciproca concordanza.
L’architettura è, in questo senso, rythmos e metron, in quanto introduce, al di là di ogni supposto ordine naturale, il criterio stesso di una misura. Nella nozione albertiana della concinnitas, l’architettura si presenta infatti come una struttura organica in cui le parti sono funzionalmente armonizzate rispetto ad un tutto. La concinnitas è il principio che governa l’intera natura, non solo l’organicità dell’intero cosmo, ma come scrive l’Alberti essa “abbraccia l’intera vita dell’uomo e le sue leggi”. Come è stato rilevato, in questa pretesa di istituire un ordine razionale, come principio di localizzazione e determinazione dello spazio umano, l’umanesimo assegna all’architettura un compito eminentemente politico. La centralità della nozione della concinnitas, nel De re aedificatoria, riabilita infatti in massimo grado l’anthropos metron di Protagora. L’ordine che è possibile riconoscere nel cosmo naturale è un ordine razionale istituito dall’uomo secondo i principi tecnici del metodo architettonico. Poiché progetta un’immagine del mondo a propria misura, l’uomo è ormai diventato il vero e proprio legislatore dell’intera natura. Egli è colui che produce innanzitutto la forma, il nomos, della sua stessa natura politica, istituendo a priori il criterio di formazione di uno spazio pubblico in cui le parti, come in un organismo vivente, siano gerarchicamente in rapporto ad un tutto. La concinnitas è in questo senso il principio sulla cui base la cultura dell’umanesimo pone il criterio architettonico fondamentale di tutta la politica moderna.
Non è affatto casuale che proprio i due fondamentali concetti con i quali Carl Schmitt identificherà i principi della politica moderna, ossia ordinamento (Ordnung) e localizzazione (Ortung), suonino semanticamente così prossimi a quelle che l’Alberti aveva individuato come le “leggi fondamentali” del metodo architettonico.
Se il problema architettonico per eccellenza è lo spazio, secondo la definizione di Leibniz, lo spazio non è tuttavia alcunché in se stesso, se non l’ordine delle relazioni di posizione delle cose osservate simultaneamente. Questo ordine, che solo l’intelletto può riconoscere e misurare a priori, non istituisce perciò alcunché, se non la pura forma armonica di un ordinamento, la cui vigenza consiste proprio nella totale vacuità del suo contenuto, nel suo essere una norma puramente disposizionale, che non ha ad oggetto una materia concreta ma una potenza.
Muovendo dalla concinnitas, l’architettura moderna, secondo le parole di Hegel, non pone in opera altro se non il criterio e la misura di una ricerca, il principio sotteso a un ordine di relazioni di posizione. Quel che l’architettura persegue è, secondo quanto scrive l’Alberti: “ordinare secondo leggi precise le parti che altrimenti per propria natura sarebbero ben distinte tra loro”. In quanto ricerca di un’armonia tra le parti di un tutto all’interno di un sistema, l’architettura è, innanzitutto, la posizione di un principio soltanto formale e regolativo, è la posizione, non di una cosa, ma di una pura misura disposizionale rispetto alla quale ciascun elemento si presenta come la parte di un tutto di relazioni.
La misura si presenta quindi sempre nella pura forma di una legge diatetica che non si applica mai ad un singolo oggetto concreto, ma decide a priori il luogo dove una qualunque cosa debba situarsi rispetto al disegno sistemico dell’intera natura.

Ma in questo ordine, in questa armonia, è sotteso allora un principio che potremmo dire musicale. Nell’architettura è in questione, come meglio si vedrà, l’istanza musaica che è alla radice di tutte le arti, la pura forma del metron, il rythmos. Come scrive Heidegger nel saggio dal titolo “...poeticamente abita l’uomo”, in cui viene tracciato, attraverso il commento di questo verso di Hölderlin, il profilo del rapporto originario tra architettura e poesia a partire dal comune problema dell’abitare:
“Quando Hölderlin parla dell’abitare, guarda al tratto fondamentale dell’esserci dell’uomo. E la “poesia”, per converso, la considera a partire dal rapporto con questo abitare inteso in maniera essenziale.
Questo non vuol certo dire che la poesia sia solo un ornamento aggiunto all’abitare. Il carattere poetico dell’abitare non significa soltanto che la poesia si incontri in qualche maniera in ogni modo di abitare. Il detto suona invece: “...poeticamente abita l’uomo...”: è il poetare (das Dichten) che, in primissimo luogo, rende l’abitare un abitare. Poetare è l’autentico far abitare (Wohnenlassen). Ma con quale mezzo noi perveniamo ad una abitazione? Mediante il costruire (Bauen). Poetare, in quanto far abitare, è un costruire”.
Ma se l’architettura ha a che fare con lo spazio non è tuttavia soltanto della forma geometrica dello spazio che essa si occupa. Questa forma e questa geometria è, in realtà, la ricerca di una misura per l’abitare. Per essa è in questione non solo l’apertura di uno spazio, in senso geometrico, ma l’apertura stessa di un mondo.
Nel 1951 Heidegger tenne sul tema dell’abitare e dell’architettura due importanti conferenze, la prima nella cornice del Secondo Colloquio di Darmstadt sul tema: Uomo e spazio, si intitola “Costruire, abitare e pensare”, la seconda, tenuta alla Bühlerhöhe, porta, nel titolo, un verso di una delle ultime poesie di Hölderlin: “...poeticamente abita l’uomo”. In entrambe le conferenze il problema dell’abitare pone in questione, prima che l’edificazione di case e alloggi, di spazi umani abitabili, pubblici o privati, il significato dell’“abitare” medesimo, di ciò che i greci chiamavano ethos. Come dice Heidegger, se il problema dell’architettura è la costruzione, il costruire rimane però già sempre compreso nell’orizzonte dell’abitare: “Il costruire, cioè, non è soltanto mezzo e via per l’abitare, il costruire è già in se stesso un abitare”.

La vocazione teatrale

L’opera d’arte è un evento del tutto sorgivo e inaugurale. È come a teatro, quando, improvvisamente, nel buio della sala, si alza il sipario e, finalmente, l’opera comincia. Soltanto in quel momento, in quell’atto puro, che non presuppone alcuna potenza, ma dà luogo a un evento unico e irripetibile, possiamo parlare di origine.
Per Artaud in questo atto puro è racchiusa la dimensione stessa del teatro: “il teatro è atto e emanazione perpetua”. È evidente che l’idea di teatro presentata da Artaud non è neanche lontanamente assimilabile alla concezione moderna del teatro come rappresentazione e immagine del mondo. Il teatro, poiché è un evento inaugurale e corrisponde, secondo le parole di Artaud, alla vita stessa, è “un atto vero, e quindi vivo e quindi magico”.
Ma non somiglia forse questo atto puro a quello della creazione, così com’è stato concepito dalle grandi religioni monoteiste dell’occidente?

All’idea dell’opera come unicum irripetibile, si accompagna perciò sempre il pensiero dell’arte come atto di creazione.
Nel suo celebre saggio del 1936: L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Benjamin riconosce all’hic et nunc unico e irripetibile dell’evento originario, il tratto essenziale che conferisce il peculiare statuto di autenticità dell’opera d’arte tradizionale. Con i moderni mezzi di riproducibilità tecnica, è l’immediatezza di questo evento, nella sua unicità e nella sua irripetibilità, che viene dissolto. Con esso decade anche quell’aura che conferiva alle opere d’arte del passato il loro significato magico e cultuale. Nell’idea che Artaud espone del teatro, come “atto vero, e quindi vivo e quindi magico” è facile riconoscere la fisionomia di questo stesso carattere di unicità e irripetibilità dell’evento, di cui Benjamin mostra l’ineluttabile declino nelle attuali società di massa.
L’unica differenza, se ci è concessa una puntualizzazione, è che l’atto puro del teatro non è evidentemente qualcosa di reificabile, che possa perciò, come scrive Benjamin, inserirsi in una tradizione culturale. Quel che Artaud pensa come “atto” non può avere alcuno statuto “cosale”, come le opere conservate nei musei o nelle gallerie. Sono queste, come giustamente osserva Benjamin, le tracce di una memoria storica, in cui l’autentica unicità evenemenziale dell’origine, il movimento stesso della creazione, si reifica e si oblitera nei suoi stessi prodotti, si addensa nei sedimenti della tradizione, rimanendo, ogni volta, in essi, tradito e obliterato. Per Artaud l’origine, come teatro, non è mai una potenza che si reifica in un qualche prodotto della cultura, consegnandosi a una tradizione storica e a un infinito tradimento, ma esprime un’“emanazione perpetua”, dove potenza e atto non possono, in nessun caso, venire distinti. D’altro canto, anche nel teatro tradizionalmente inteso, l’atto e l’azione sono indiscernibili e l’opera non è se non la prestazione stessa dell’attore sulla scena. Il significato decisivo del teatro di Artaud consiste, oltretutto, proprio nell’aver radicalizzato questo consueto modello in cui la prestazione è inseparabile dal prestatore. Tale struttura classica è condotta fino alle sue estreme conseguenze, in quanto, in quel teatro che non è più teatro di rappresentazione, non vige più neppure la gerarchia classica del teatro borghese, che pone al primo posto l’autore, colui che fa l’opera, e in secondo luogo l’attore, colui che l’agisce. Nel teatro balinese, in cui Artaud vede il puro cerimoniale, il rito e la danza della vita, non c’è, prima, un testo, scritto da un autore, che l’attore debba recitare, mettendo in scena l’azione sulla base di un copione prefissato, ma l’opera non è che la medesima scrittura scenica, in cui autore, attore e testo si identificano senza residui in “un atto vero, e quindi vivo e quindi magico”. In questa pura performance non ha luogo alcuna rappresentazione, ma la vita e il teatro diventano davvero inseparabili. Il teatro non simula alcunché ma manifesta la vita stessa come “emanazione perpetua”.

Immagine-tempo

L’immagine nella quale una qualunque cosa si annuncia nel linguaggio, lungi dall’esser mero riflesso sbiadito della realtà, esprime ciascun fatto in ciò che vi è in esso di stabile e imperituro, nell’idea. Secondo il paradigma platonico dell’anamnesis, l’immagine, così intesa, è anzi proprio ciò a cui l’anima deve ogni volta ridestarsi.
È proprio la figura del risveglio il vero cuore della teoria dell’immagine in Benjamin, così come essa si annuncia nella cornice delle preziose note che avrebbero dovuto dar corpo teorico alla sezione introduttiva del libro su Parigi, concepito, come attesta la lettera scritta da Benjamin a Scholem nel maggio del 1935, con il medesimo intento che aveva animato il testo sul Dramma barocco tedesco. Come si legge nella lettera, esattamente come nel libro sul barocco, “anche qui al centro sarà il dispiegamento di un concetto tradizionale. Se là era il concetto di dramma, qui sarebbe quello del carattere di feticcio della merce”. Ma l’esame di un “concetto tradizionale” comporta sempre, per Benjamin, la definizione di un metodo storiografico che è innanzitutto un metodo critico.
La ricerca storica, nella sua istanza critica, significa innanzitutto per Benjamin una decostruzione della tradizione. Benjamin riconosceva nel “materialismo storico” — che si contrapponeva tanto all’ideologia dello storicismo quanto a quella della socialdemocrazia — l’unico paradigma di un metodo critico davvero all’altezza del suo compito, non solo teorico, ma innanzitutto pratico e politico. “Per il materialista storico è importante distinguere con estremo rigore la «costruzione» di un fatto storico da ciò che viene definita la sua «ricostruzione». La «ricostruzione» implica il solo piano dell’immedesimazione. La costruzione presuppone la «distruzione»”.
La sezione del libro incompiuto sui Passages, al cui centro doveva articolarsi l’analisi del tema marxiano del “carattere di feticcio della merce e il suo arcano” richiede quindi una premessa, analoga in tutto a quella del libro sul Trauerspiel. “Se il libro sul barocco — scrive Benjamin, sempre nella stessa lettera indirizzata a Scholem — mobilitava la propria teoria della conoscenza, ciò accadrebbe almeno in egual misura per i Passages, sebbene io non riesca a vedere se essi trovino un’esposizione autonoma e in che misura io riuscirei a fornirla”.
L’istanza critica di Benjamin muove dalla distinzione, fatta da Marx, nel poscritto alla seconda edizione del Capitale, tra Forschungweise e Darstellungweise, che egli cita espressamente nelle note raccolte nella sezione introduttiva del libro. Come vedremo, essa è il cardine teorico di tutta la riflessione di Benjamin sull’immagine.

La ricerca deve appropriarsi del materiale nei particolari, deve analizzare le sue differenti forme di sviluppo e deve rintracciarne l’eterno concatenamento. Solo dopo che è stato compiuto questo lavoro, il movimento reale può essere esposto in maniera conveniente. Se questo riesce, e se la vita del materiale si presenta ora come idealmente riflessa, può sembrare che si abbia a che fare con una costruzione a priori (Cap. p. 44).

Il rapporto individuato da Marx è quello tra la metodologia di ricerca dei materiali, minuziosa e particolare nel seguire i processi reali e le articolazioni mediante cui essi vengono reperiti, e il metodo della loro esposizione, che deve apparire come una costruzione a priori. Se l’articolazione di questi due momenti, quello della ricerca e quello dell’esposizione, deve innanzitutto consentire di esibire l’immagine “idealmente riflessa” della “vita del materiale” ed esporre il suo “movimento reale”, il procedimento conoscitivo deve essere, allora, nel contempo, a priori e a posteriori.

Lo stesso problema, sotto un diverso profilo, era stato sollevato da Kant quando distingueva, nella sua tavola delle categorie, le categorie matematiche da quelle dinamiche. Le prime, quantità, qualità, riguardano la semplice posizione di qualcosa, la forma della sua dabilità, le seconde, che Kant suddivide appunto in categorie della relazione, sostanza e accidente, causa e effetto, e categorie della modalità, esistenza, possibilità e necessità, hanno come oggetto invece la struttura dinamica dei fatti, quindi la materia sensibile del dato nel suo aver luogo temporale. Quest’ultime hanno una vigenza logica a priori, in quanto preliminarmente connettono il prima e il poi di ciascun fatto secondo una certa relazione, ma il caso della loro applicazione, poiché appunto corrisponde a un fatto, non può che essere sempre soltanto a posteriori. È lo schema dell’immaginazione trascendentale che forma per così dire a priori l’immagine di questa posteriorità del fenomeno empirico: in quanto funziona da medio tra tempo e concetto ad essa propriamente compete l’esposizione del concetto nell’intuizione. L’esibizione è la continua polarizzazione, sotto il profilo formale, tra l’apriorità logica del concetto e la posteriorità temporale del dato e, sotto il profilo modale, tra la posteriorità temporale del concetto e l’anteriorità logica del dato. È in questa struttura che si nasconde il significato di ciò che Kant chiama il trascendentale: non un dato supposto temporalmente al concetto né un concetto supposto logicamente al dato, ma una mutua limitazione di dato e concetto che indica il rapporto simultaneo tra un’anticipazione e un ritardo.
Perciò l’illusione del continuum è prodotta essa stessa da questa diacronia tra l’anteriorità logica del possibile che è espressa nel concetto e la posteriorità fattuale del dato. Ma il possibile che è apriori nel concetto è quello che rimane ancora possibile nel dato, quando esso, a posteriori, è già trascorso. Ciò che sta prima, per così dire, del possibile è, da un lato, un fatto già accaduto, che ci palesa il carattere irreversibile e continuo del tempo cronologico, ribadendo così l’idea megarica di un atto comunque indiscernibile dalla potenza, ma se questa apriorità non è né una preminenza temporale, né un’apriorità soltanto logica, bensì la limitazione trascendentale della possibilità in senso modale, ciò che è prima non è tuttavia mai il fatto bruto e già compiuto ma quella potenza che dà luogo, volta per volta, al fatto e che Kant, già nel Beweisgrund, distingueva in linea di principio dalla possibilità soltanto logica e formale. Di questa potenza si può dire quel che affermava Diodoro Crono, ossia che essa è indiscernibile dall’atto e può essere separata da esso soltanto a posteriori mediante l’intelletto. La modalità del possibile non è una possibilità soltanto logica, astratta a posteriori da un fatto mediante l’analisi, ma corrisponde per Kant alla dabilità effettiva di qualcosa: lo schema modale della possibilità è “l’esistenza di un oggetto in un qualunque tempo”. Essa indica, in questo senso, qualcosa che compete autonomamente al tempo e che esprime, perciò, una potenza comunque eteronoma rispetto a quella dell’intelletto, alla quale quest’ultimo, quanto alla possibilità di avere un oggetto, è anzi sempre consegnato. Ciò significa allora che la potenza espressa dalla categoria modale è innanzitutto quella del possibile stesso, nella sua eteronomia rispetto al mero concetto. Ma il concetto modale del possibile mantiene per ciò stesso, in Kant, una paradossale anfibolia: ciò che è virtuale nel concetto, la possibilità generica di qualcosa, è reale nel tempo e ciò che è virtuale nel tempo, la possibilità di non essere, è reale nel concetto. Nella modalità del possibile è pensata infatti un’impossibilità, una potenza di non essere che mantiene uno statuto, non soltanto formale, ma reale, proprio come potenza (come contingenza, del concetto rispetto alla cosa, e della cosa rispetto al concetto). Ma la cosa in questione non è, qui, un oggetto, ma la dabilità di un oggetto in un qualunque tempo, dabilità che, come tale, esprime sempre altresì la possibilità, per se stessa effettiva, che questo possa anche non essere dato (o che, comunque, il caso in cui esso sia effettivamente dato rimane completamente indeterminato nel suo “quando”).




Risveglio

Se la connessione tra l’immagine e il tempo, inteso come tempo storico, era stata individuata da Benjamin nella mémoire involontaire e in essa ne andava propriamente dell’esperienza in quanto esperienza vissuta, nel libro su Parigi il problema è affrontato invece a partire dal paradigma del sogno. Il binomio al quale rimane legata, in queste pagine, la riflessione di Benjamin sull’immagine è quella del sogno e del risveglio.
Se Benjamin descriveva la mémoire involontaire di Proust come il ricordo paradossale: “di immagini che non abbiamo mai visto prima che ci ricordassimo di loro”, le immagini non sono più quelle del ricordo involontario, ma quelle del materiale onirico recuperato al risveglio.

Il risveglio è forse la sintesi della tesi della coscienza onirica e dell’antitesi della coscienza desta? Il momento del risveglio sarebbe allora identico all’ora (Jetzt) di una determinata “conoscibilità” in cui le cose indossano la loro vera — surrealistica — faccia. Similmente in Proust è importante come tutta la vita sia in gioco nel punto di rottura — dialettico in grado supremo — della vita, il risveglio. Proust comincia con un’esposizione dello spazio di chi si desta48.

Se, come dice Benjamin, il tempo storico è il tempo della novità, “là, dove il veramente nuovo si rende percepibile nella sobrietà del mattino”, il nuovo non è mai, tuttavia, né una creazione assoluta, né l’eterna ripetizione di un’origine, bensì, come abbiamo visto, la discontinuità tra una pre- e una post-storia dei fatti: vera e propria interruzione del continuum. Quel che Benjamin critica più duramente nell’idea del progresso è il presupposto del movimento asintotico verso un telos infinitamente procrastinato, poiché questo concetto non è se non l’altra faccia del concetto di decadenza (ed entrambe condividono il presupposto storicistico della storia come un concatenamento incontrovertibile di fatti).

“Il concetto di progresso va fondato nell’idea della catastrofe. Che «tutto continui così» è la catastrofe. Essa non è ciò che di volta in volta incombe, ma ciò che di volta in volta è dato”.

Il concetto espresso da Benjamin, già nelle Tesi di filosofia della storia, secondo il quale nella tradizione degli oppressi “lo stato d’eccezione è diventato la regola”, trova qui conferma. È proprio a questo riguardo che Benjamin, in apparente contraddizione con quanto scriveva ne L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità, finisce con l’ammettere, forse pensando proprio ai surrealisti, che è innanzitutto l’opera d’arte ciò che ha la forza distruttiva di far saltare il continuum. Ma l’opera d’arte veramente capace di interrompere quella continuità in cui la verità è consegnata alla tradizione e in essa infinitamente tradita non è quella che, nei musei o nelle gallerie, custodisce gelosamente l’aura di sacralità della memoria culturale, come un feticcio monumentale, ma quella che mantiene in sé il gesto distruttivo della critica, secondo quanto Benjamin aveva riconosciuto, già nella sua tesi di laurea, come “la caratteristica peculiare dell’arte romantica”.

In ogni vera opera d’arte c’è un momento in cui spira su chi vi penetra un’aria fresca come un vento di primo mattino. Per questo risulta che l’arte, considerata spesso refrattaria ad ogni relazione con il progresso, può servire alla sua autentica definizione. Il progresso non è di casa nella continuità del corso del tempo, ma nelle sue interferenze: là dove il veramente nuovo si rende percepibile per la prima volta nella sobrietà del mattino49.

Per Benjamin il risveglio corrisponde al momento in cui, ridestandoci da un sogno, soltanto allora ci ricordiamo di quel che abbiamo sognato. Ma l’immagine del sogno si presenta, allora, come il fantasma di ciò che è già stato, di ciò che non è più se non un vago e pallido ricordo. L’immagine alla quale ci si desta, si tinge allora sempre di una nota di nostalgia, in quanto si presenta come qualcosa che abbiamo ormai irreparabilmente perduto. Come certi angeli della tradizione talmudica, l’immagine è quel che, nell’attimo balenante in cui essa affiora alla memoria, è già subito dileguata senza lasciare traccia alcuna. Ma ciò non induce tuttavia Benjamin all’elaborazione di un lutto. Paradossalmente, proprio nella perdita avviene un’appropriazione e una salvezza che non sarebbero altrimenti possibili. L’idea che nell’immagine qualcosa sia salvato proprio nell’attimo stesso in cui ci appare irreparabilmente perduto è, nel libro su Parigi, il nucleo stesso del concetto benjaminiano del tempo storico. Questa immagine che, nel contempo, è e non è, corrisponde infatti pienamente a quel che Benjamin chiama immagine dialettica.

L’immagine dialettica è un’immagine balenante. Ciò che è stato va trattenuto così, come un’immagine che balena nell’ora (Jetzt) della sua conoscibilità. La salvezza, che in questo modo — e solo in questo modo — è compiuta, si lascia compiere solo in ciò che nell’attimo successivo è già irreparabilmente perduto. A questo proposito la metafora, dall’introduzione a Jochmann, dello sguardo profetico che si accende alle vette del passato50.

Vi è, anche qui, più di un’analogia con la mémoire involontaire.

E quelle che riuscivamo a vedere sono proprio le immagini più importanti — quelle sviluppate nella camera oscura dell’attimo vissuto. Si potrebbe dire che ai nostri istanti più profondi è stata unita una piccola immagine, una foto di noi stessi, come nei pacchetti di sigarette. E quella vita la cui immagine scorrerebbe, come si sente dire, dinanzi a chi muore o a chi versa in pericolo, si compone proprio di queste piccole immagini. Esse scorrono in rapida sequenza come quei quaderni — precursori del cinematografo — sui quali da bambini potevamo ammirare un boxeur, un nuotatore e un tennista nell’esercizio delle loro arti.

Poiché ci si desta sempre da un sogno, il risveglio è però sempre, per Benjamin, un risveglio dall’immagine. Caratteristica dell’immagine del sogno è che soltanto ora, nel risveglio, essa esiste per la prima volta. Non si deve perciò rimanere ancorati a quelle immagini, da Benjamin definite arcaiche, che sono esattamente le immagini in cui siamo immersi nel sogno e che non possiamo in nessun caso vedere. Il sogno rispetto al risveglio è come l’epoca nella quale siamo immersi e della quale, per così dire, non abbiamo alcuna coscienza critica, né possiamo afferrarne le immagini, finché non ci ridestiamo ad essa e in essa. Finché non ci si desta si è condannati a permanere in una sorta di sonnambulismo del pensiero e dell’azione, che tanto somiglia alla trance del poeta ispirato, continuamente pendente dalla musa, dalla legge o dalla tradizione, di cui il fascismo europeo aveva mostrato la facies politica. In ciò è da riconoscere il significato regressivo delle immagini arcaiche, identificate da Benjamin con gli archetipi e i mitologemi di Jung.

Come leggiamo nelle note introduttive al libro di Parigi, posto che la relazione tra il passato e il presente non sia temporale ma immaginale, l’immagine — come immagine del tempo storico — deve in primo luogo diventare l’oggetto della critica.
È rispetto a questo ordine di problemi, che il pensiero di Benjamin può essere avvicinato a quello di Heidegger.

È falso che l’esserci, attraverso la successione delle sue realtà momentanee, percorra un cammino precostituito o un corso “della vita”; al contrario, l’esserci estende se stesso in modo tale che il suo stesso essere risulta costituito dall’estensione. Il “fra” che congiunge la nascita con la morte getta le sue radici nell’essere stesso dell’esserci. Mai l’esserci “è” reale in un determinato punto del tempo e “circondato” dalla realtà della sua nascita e della sua morte. Considerata esistenzialmente, la nascita non è e non è mai passata nel senso di una cosa non più presente, ma allo stesso modo che la morte non ha il modo di essere della “mancanza” di qualcosa di non ancora presente che sarà tale. L’Esserci fattizio esiste come essente nato e, in quanto tale, muore nel senso dell’esser per la morte. Ambedue le “fini” e il loro “fra” sono fintanto che l’esserci effettivamente esiste e lo sono su quell’unico fondamento che è reso possibile dall’essere dell’Esserci in quanto Cura. Nascita e morte “coeriscono” esistenzialmente nell’unico esser gettato e dell’esser-per-la-morte autentico e inautentico. In quanto Cura l’Esserci è il “fra”.

Nell’idea di una continuità temporale della vita, nel tratto tra la nascita e la morte, si nasconde una interpretazione pregiudiziale dell’essere e del tempo, dalla quale Heidegger tenta di emanciparsi. Affermando che il Dasein è temporale, nel senso che la sua vita si estende dalla nascita alla morte come una pura successione indifferente, continua e irreversibile di fatti, “si finisce, in ultima analisi, per considerare l’Esserci una semplice presenza «nel tempo», anche se, «evidentemente», immateriale”.
La metafisica concepisce l’essere sempre e soltanto a partire dall’esser-presente e dalla presenzialità, di modo che l’esser-stato e l’avvenire indicano, rispetto all’ora del presente indicativo, una defezione d’essere. Rispetto al presente attuale, passato e futuro significano un ritardo o una anticipazione, un non più e un non ancora. In rapporto al presente attuale, l’esser stato e l’avvenire si manifestano pertanto sempre come un non-essere, come un’assenza o una privazione. Si tratta invece di afferrare l’integrale “attualità” di quelle dimensioni temporali dell’essere, l’esser stato e l’avvenire, che la metafisica classica aveva dissolto nel nulla della non presenzialità. Il presente è, anzi, sempre, per Heidegger, una sorta di paradossale contrazione del possibile nell’esser stato: come progetto gettato, il Dasein conosce il presente sempre e soltanto come l’avvento di un esser stato (Ankunft des Gewesen).
Questo rovesciamento della concezione tradizionale del tempo comporta una totale rielaborazione del problema della negazione e del non, una completa risemantizzazione del nulla stesso, proprio perché il nulla stesso diventa indiscernibile dall’essere. In ciò Heidegger intende però superare la prospettiva del nichilismo, poiché soltanto prendendo in considerazione il carattere temporale di questo “non”, sarà possibile concepire un’orizzonte semantico dell’essere che non abbia più nel presente puntuale, irrelato e astratto, nella stygmé dell’ora eternamente in fuga nel continuum, il proprio asse portante. Si tratta, per Heidegger, di porre a tema della ricerca proprio l’“essere” — la presenza — del non più e del non ancora, quali dimensioni attuali e modalità strutturali dell’esistenza concreta. Anziché liquidare come non presenti il passato e il futuro, Heidegger tenta perciò di impostare il problema della presenzialità dell’essere in modo tale che del passato e del futuro sia invece possibile un’esperienza attuale e, per così dire, integrale. Il non più ora e il non ancora ora, che la metafisica classica concepiva come una negatività e come un difetto, diventano invece le modalità attuali della presenza, ormai inseparabile dalla sua stessa temporalità. “Quelle immagini nelle quali — proprio come in taluni sogni — possiamo vedere noi stessi” hanno il tempo e il modo del futuro anteriore.



Cinema

È questo il paradosso che Gilles Deleuze riscontra nel cinema, nel tempo cinematografico. Egli critica, nel suo secondo volume sul cinema, quel luogo comune diffuso, alquanto triviale, che viene per lo più spacciato come un’evidenza incontestabile, secondo il quale “l’immagine cinematografica è al presente, necessariamente presente”51: nel cosiddetto cinema diretto o cinéma-vérité, al contrario, ci si prefigge proprio di “non raggiungere un reale quale esisterebbe indipendentemente dall’immagine, ma raggiungere un prima e un dopo quali coesistono con l’immagine, quali sono inseparabili dall’immagine”. Il tentativo di afferrare i due lati della stessa immagine, il reale e il virtuale, pone in questione proprio lo stesso pregiudizio della metafisica classica dalla quale Heidegger aveva tentato di affrancarsi in Essere e Tempo.

Secondo la tesi di Bergson sul movimento, con la quale Deleuze introduce il suo libro sul cinema, il movimento non va confuso mai con lo spazio percorso, in quanto questo è sempre già passato, mentre il movimento esprime sempre l’istanza presente in cui si attua il percorso, è indiscernibile dall’atto stesso del percorrere. Come scrive Deleuze, a questa tesi si accompagna un corollario: “non si può ricostruire il movimento con posizioni nello spazio o con istanti nel tempo, cioè con delle «sezioni» immobili. Tale ricostruzione si fa solo congiungendo con le posizioni e con gli istanti l’idea astratta di successione, di un tempo meccanico, omogeneo, universale e ricalcato sullo spazio, lo stesso per tutti i movimenti”.
In tal modo, il movimento sarà del tutto inafferrabile e ciò in un duplice senso. Se è concepito come l’intervallo tra due punti, come ciò che passa da una posizione ad un’altra nello spazio, il movimento sarà allora già sempre trascorso. Se si cerca, invece, di sezionare il tempo, ci sfuggirà comunque sempre la sua durata effettiva, il tempo qualitativo del movimento stesso. Di qui la cattiva formula “movimento reale — durata concreta”, “sezioni immobili + tempo astratto” che Bergson, in uno scritto del 1907, intitolato l’Evoluzione creatrice, assocerà al cinema, all’illusione delle immagini in movimento. Nel cinema, in ogni singolo fotogramma, è fissata un’immagine, una posa, che, presa a sé, è come un’istantanea, una sezione immobile del movimento temporale. Dall’altro lato vi è un concatenamento macchinico di queste sezioni immobili in rapida successione che è totalmente vuoto e indifferente: astratto e impersonale, quello della cinepresa e del proiettore. Nella successione, le singole sezioni istantanee sono proprio come le immagini di quei quaderni della nostra infanzia di cui parlava Benjamin, come “precursori del nostro cinematografo — sui quali da bambini potevamo ammirare un boxeur, un nuotatore o un tennista nell’esecizio delle loro arti”. Se Bergson indica la cattiva formula: movimento reale — durata concreta, sezioni immobili + tempo astratto, come l’illusione cinematografica, questa non è però altro che la forma stessa della nostra percezione del tempo e del movimento. Come nel paradigma benjaminiano del tempo storico, il tempo qui è fatto di salti, di interruzioni, di attimi discreti che si legano gli uni agli altri attraverso un movimento di concatenamento affatto indipendente e macchinico. Deleuze cita al riguardo un passo dello scritto del 1907, che non lascia nessun dubbio sul fatto che, per Bergson, l’artificio del cinema è, in senso stretto, la forma della nostra percezione del tempo (ciò che egli definisce, con un’immagine che ci ricorda molto da vicino quella evocata da Benjamin nelle sue note sulla mémoire involontaire, un “cinematografo interno”).

Noi scattiamo vedute quasi istantanee sulla realtà che trascorre, e, siccome sono caratteristiche di questa realtà, ci basta infilarle lungo un divenire astratto uniforme, invisibile, situato in fondo alla macchina della conoscenza (...). Percezione, intellezione e linguaggio procedono in generale così. Che si tratti di pensare il divenire o di esprimerlo, o anche di percepirlo, non facciamo altro che azionare una sorta di cinematografo interno.

Come Benjamin affermava nelle sue note sulla mémoire involontaire, le immagini della vita che essa ci offre sono quelle del suo prima e del suo dopo, della sua pre- e della sua post-storia, sono cioè le immagini di quella “vita mai vissuta” di cui, da studente, a Berlino, aveva manifestato, insieme ad Heinle, l’istanza politica, nel movimento della gioventù. Questa vita mai vissuta è l’infanzia, in cui natura e cultura sono abolite in quanto indiscernibili: nell’infanzia vi è solo lo spazio di tempo tra due limiti estremi, che non sono la nascita e la morte, come termini della vita biologica, né un’origine e una fine storica, nel senso di una tradizione culturale. L’infanzia è la contrazione, il salto, tra un prima e un dopo, tra una preistoria e una protostoria, che pone altresì in gioco il rapporto col linguaggio, con la lingua.

Chi giunse a questa forma di disperazione, si sovvenne della sua infanzia, quando c’erano ancora un tempo senza fuga e un Io senza morte. Guarda e guarda giù in quella corrente da cui era emerso, e perde lentamente, finalmente la sua capacità di comprensione. Questa perdita lo riscatta: in questo stato di oblio, in cui non sa che cosa intende eppure la sua intenzione è redenta, nacque il diario. Questo libro insondabile di una vita mai vissuta, il libro di una vita nel tempo della quale tutto ciò che non vivemmo a sufficienza si trasforma e si compie52.

Nello scritto intitolato Metafisica della gioventù, conservato in copia manoscritta da Scholem, il quale lo fa risalire al 1913-14, quel che, nella nota su Proust, competerà al cinema è ancora affidato al diario, a cui l’io si tiene disperatamente aggrappato come all’archivio segreto dei suoi ricordi. “Di giorno in giorno, di secondo in secondo l’Io si autoconserva, si aggrappa allo strumento che dovrebbe suonare: al tempo”. Ma quel che è irripetibile e unico, l’evento, non è in nessun caso accessibile come il semplice ricordo di un fatto trascorso della biografia. La fonte della “disperazione indicibile” dalla quale, secondo Benjamin, nasce l’esigenza del diario è il punto di passaggio tra l’infanzia e il tempo storico. La lingua del diario è appunto quella lingua della gioventù, totalmente inespressiva, che è sempre, per così dire, sul punto di parlare, ma non è ancora proferita in una lingua grammatica e consegnata ad una tradizione. Questa dimensione limite della lingua, l’infanzia, è all’origine stessa del tempo, come tempo storico. Non più natura, non ancora cultura, non mera potenza, ma neppure atto, è questa quella dimensione limite del linguaggio che Benjamin fa coincidere, in Kafka, col puro gesto.

L’immagine del sogno esiste come tale, unicamente nel risveglio. Soltanto ora che ci siamo ridestati dal sogno, è possibile afferrare quell’immagine, annunciata nel sogno come una sorta di profezia, e carpirla nella sua piena e integrale attualità. Ridestandoci dal sogno, il sogno per ciò stesso svanisce. Di esso ci rimane un ricordo, sovente vago e confuso, un’immagine, incapace però di restituirci, come tale, il sogno stesso. Restituito al passato, ciò che abbiamo sognato (il sogno stesso) nel risveglio si inabissa come tale nel regno del dimenticato. Si tratta qui di quella dimensione protostorica che Benjamin, nel saggio su Kafka, identifica con il Mutterrecht bachofeniano, con quel regno ctonio e palustre del diritto e della colpa, da cui sorgono, per Benjamin, le figure di Kafka. Se il sogno, nel risveglio, non è più, è “tolto” e sospeso in quanto consegnato al passato, al protostorico, quel che, al risveglio, può essere salvato, nell’esser stato del sogno, è allora sempre, paradossalmente, quel che nel sogno non è mai stato realizzato, ciò che in esso esisteva soltanto in potenza e come potenza (se volessimo ricordarci del sogno stesso, avremmo in verità accesso al regno del già sempre dimenticato).
Quel che non è mai stato, nel sogno già trascorso, è l’annuncio profetico che in esso ha luogo. Tale annuncio è appunto racchiuso in quell’immagine del sogno della quale soltanto al risveglio ci ricordiamo, in quell’immagine che è per sempre perduta insieme al sogno stesso, ma che esiste, proprio in quanto già perduta, ed esiste soltanto nell’attimo in cui ci ridestiamo ad essa (da essa).
È il mai stato della profezia a divenire attuale, ora, che, nel risveglio, il sogno stesso è già passato. Esso diventa attuale non come un’ulteriore procrastinazione della potenza del sogno, ma proprio, al contrario, estinguendo, con tale potenza, la potenza stessa dell’esser stato del sogno e consegnandola compiutamente all’oblio.
Il divenire attuale dell’immagine si è già sempre lasciato alle spalle ogni potenza. Consumata in questa realizzazione è però soltanto la potenza incontrovertibile del passato e salvata è invece interamente quella potenza del possibile che nel passato è rimasta non realizzata. Questa potenza è conservata unicamente nel modo della possibilità, benché sempre come quella possibilità che è già ora, come tale, attuale.
È proprio in questa concezione dinamica dell’immagine, come Urphänomen, che si dà a vedere il problema del tempo. In questo pensiero goethiano, si svela il rapporto con l’inizio greco del problema del tempo, ossia il problema di come sia possibile salvare i fenomeni per statuto transeunti. Se ci si richiama a Platone, non si deve infatti trascurare che il tempo era stato definito proprio come l’immagine mobile dell’eternità. L’immagine in cui ciascuna cosa viene al linguaggio, non solo è immagine del tempo, ma è essa stessa temporale (“carica di tempo fino a frantumarsi”, secondo l’espressione con cui Benjamin designa l’immagine dialettica).
È questa la struttura, pensata da Benjamin nel Frammento teologico-politico, come l’eternità di un tramonto, che rende possibile la felicità. La felicità sembra qui riposta nella memoria. Del passato, la memoria rende compiuto il dolore, in quanto già è stato, e incompiuto il piacere, in quanto può essere sempre di nuovo differito nella ripetizione. Nella memoria, un fatto — ciò che è stato fatto — irreparabilmente e incontrovertibilmente, può continuamente essere rimesso in gioco, rendendo compiuto e consumato, in esso, il dolore, e incompiuto e differibile il piacere. In questa concezione cairologica del tempo, il piacere è differito, non solo come quella possibilità rimasta senza adempimento nel passato, che solo ora può diventare per la prima volta possibile, ma come quell’esperienza già compiuta del piacere, che può essere tuttavia sempre di nuovo riattualizzata e indeterminatamente realizzata nella possibilità stessa della sua ripetizione. Questa possibilità comincia anzi ad esistere soltanto nell’“ancora una volta” della ripetizione, nel sempre di nuovo possibile di ciò che è già sempre accaduto, che indetermina i limiti di ogni fatto e ne salva la possibilità. Perciò non vi è esperienza se non nella ripetizione, perciò, secondo il motto di Goethe: “Einmal ist Keinmal”. Se una volta è nessuna volta, soltanto nella ripetizione, l’una volta e l’ancora una volta, l’unico e il riproducibile, l’origine e l’epigonalità, diventano perfettamente indiscernibili.





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Se l’arte ha una vocazione costruttiva in quanto pone in essere la forma vuota, la pura potenza della costruzione, il rovescio di questo atto, che potremmo definire formativo, in quanto istituisce la misura e la norma dell’operare stesso, non è un semplice gesto decostruttivo, ancora perfettamente speculare al primo e immanente allo stesso orizzonte, ma un gesto distruttivo che ha di mira, in prima istanza, non un semplice dato empirico, un qualche prodotto estrinseco dell’atto formativo, ma la forma stessa che tale fare istituisce.
L’atteggiamento rivoluzionario delle avanguardie non può essere compreso se non in questa dialettica e il significato del suo fallimento consiste nell’aver scambiato la mera decostruzione del prodotto storico della tradizione culturale, che non colpisce però la forma della tradizione medesima, per la distruzione di questa stessa forma, aggredita con coraggio fino alla sua radice e proprio nella sua totale vigenza formale, nonché metafisica. A partire da Marx, la rivoluzione ha di mira la forma di produzione, che è insita nel movimento della tradizione stessa, e, in qualche modo, la rende possibile. Della tradizione, questa forma, che è, per Marx, il lavoro, indica appunto la pura tradibilità.

La rivoluzione, così come fu concepita dal giovane Marx, non doveva infatti riguardare il lascito di una tradizione storica, come riappropriazione del suo traditum, quanto piuttosto interrompere la tradizione stessa, colpire la forma stessa della tradizione. Marx aveva infatti riconosciuto come la peculiarità storica dell’istanza rivoluzionaria della classe operaia il fatto che la rivoluzione avrebbe dovuto aggredire il “tipo (Art) di attività”, cioè il lavoro, con cui il capitale imprime la sua forma al complesso globale dell’attività umana, incatena la prassi degli uomini e la loro vita pubblica alla forma di un sistema di rapporti gerarchizzati di produzione, nei quali la dimensione propria dell’agire umano risulta originariamente espropriata e alienata. Il tipo di attività, che la rivoluzione deve colpire, non è che la forma impressa da una classe egemone, che è il partito della conservazione, sulla generica potenza pratica e linguistica dell’uomo.


F. C., N. B.

Finito di stampare
nel mese di dicembre dell’anno 1995
presso la tipografia Brigati in Genova

per conto delle Edizioni Masnata
Piazza Remondini 6 D r. - 16131 Genova - Italia

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Direzione editoriale: Linda Kaiser


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Tirato in 250 esemplari numerati
25 copie firmate dagli autori
più alcune copie fuori commercio




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Copia numero

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Federica Chisalé, Nicola Bucci — IL SILENZIO DELLE SIRENE - PER UNA CRITICA DELL’ATTO DI CREAZIONE — Edizioni Masnata


Federica Chisalé, Nicola Bucci — IL SILENZIO DELLE SIRENE - PER UNA CRITICA DELL’ATTO DI CREAZIONE — Edizioni Masnata


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Federica Chisalé, Nicola Bucci — IL SILENZIO DELLE SIRENE - PER UNA CRITICA DELL’ATTO DI CREAZIONE — Edizioni Masnata


Federica Chisalé, Nicola Bucci — IL SILENZIO DELLE SIRENE - PER UNA CRITICA DELL’ATTO DI CREAZIONE — Edizioni Masnata


Federica Chisalé, Nicola Bucci — IL SILENZIO DELLE SIRENE - PER UNA CRITICA DELL’ATTO DI CREAZIONE — Edizioni Masnata
1 Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco, trad. it. Enrico Filippini, Torino, Einaudi, 1971, p. 11.
2 Ibidem, p. 12.
3 Ibidem, p. 13.
4 Ibidem.
5 In Walter Benjamin, Angelus Novus, trad. it. Renato Solmi, Torino, Einaudi, 1962.
6 Merril B. Hintikka, Jakko Hintikka, Indagine su Wittgenstein, Bologna, Il Mulino, 1990.
7 Repubblica, 395, c 8-d 3.
8 Walter Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, in idem, Angelus Novus, cit., p. 55.
9 IdemSulla facoltà mimetica, in Angelus Novus, cit., p. 72.
10 IdemIl dramma barocco tedesco, cit., p. 24.
11 Ibidem, p. 24.
12 IdemParigi capitale del XIX secolo, a cura di G. Agamben, Torino, Einaudi, 1986.
13 Idem, Ombre corte, a cura di G. Agamben, Torino, Einaudi, 1993, p. 390.
14 Idem, Il dramma barocco tedesco, cit., p. 14.
15 Idem, Di alcuni motivi in Baudelaire, in Angelus Novus, cit., p. 118.
16 Idem, Il dramma barocco tedesco, cit., p. 12.
17 IdemParigi capitale..., cit., N. 7a,2.
18 IdemFranz Kafka, in Angelus Novus, cit., p. 295.
19 IdemParigi capitale..., cit., N. 8,1.
20 IdemLe affinità elettive, in Angelus Novus, cit., p. 221.
21 IdemFranz Kafka, cit., p. 285.
22 Jean Luc Nancy, La comunità inoperosa, Napoli, Cronopio, 1992.
23 Walter Benjamin, Franz Kafka, cit., p. 282.
24 IdemLeopardi - Gedanken, in Ombre corte, cit.
25 Platone, Jone, 536a, sg.
26 IdemFedone, 61a 3s, cfr. Sofista, 216c. Su questo aspetto musaico della filosofia si sofferma anche Heidegger nella prima parte della Vorlesung del semestre invernale 1921-22. Phänomenologische Interpretationen zu Aristoteles. Einführung in die phänomenologische Forschung. M. Heidegger, Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele, trad it. M. De Carolis, Napoli, Guida,1990, p. 83.
27 Martin Heidegger, Hölderlin e l’essenza della poesia, in Estetica moderna, a cura di G. Vattimo, Bologna, Il Mulino, 1977, p. 340.
28 Ibidem, p. 340.
29 Ibidem, pp. 341-342.
30 Ibidem, p. 340.
31 Carl Schmitt, Le categorie del ‘politico’, Bologna, Il Mulino, 1972.
32 Martin Heidegger, Hölderlin e l’essenza della poesia, cit., p. 34.
33 Ibidem, p. 346.
34 Emile Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, vol. II, Torino, Einaudi, 1976, p. 363.
35 Carl Schmitt, La dittatura, Bari, Laterza, 1975.
36 Philippe Lacoue-Labarthe, La finzione del politico, Genova, Il Melangolo, 1991, pp. 34-35.
37 Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco, cit., pp. 167-168.
38 Karl Kerenyi, “Agalma, eikon, eidolon”, Archivio di filosofia, 1962.
39 Martin Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, in Sentieri interrotti, Firenze, La Nuova Italia, 1968, p. 5.
40 Ibidem.
41 Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, trad. it., Torino, Einaudi, 1966, p. 26.
42 Ibidem, p. 25.
43 Ibidem.
44 “La parola portoghese feitiço (sulla quale si è coniato il termine feticcio) non deriva direttamente, come credeva de Brosses, dalla radice latina di fatumfarifanum (col senso, quindi, di ‘cosa fatata, incantata’, ma dal latino facticius ‘artificiale’. È della stessa radice di facere(Sant’Agostino parla anzi, a proposito degli idoli pagani, di un genus facticiorum deorum, dove il termine facticius anticipa indubbiamente il significato moderno)”: Giorgio Agamben, Stanze, Torino, Einaudi, 1977, p. 43.
45 Karl Marx, Il Capitale, Roma, Editori Riuniti, 1964.
46 Georges Bataille, La parte maledetta, Torino, Bollati Boringhieri, 1992; Marcel Mauss, Teoria generale della magia, Torino, Einaudi, 1965.
47 Georg Wilhelm Friederich Hegel, Estetica, Torino, Einaudi, 1963, p. 669.
48 Walter Benjamin, Parigi capitale..., cit., N 3a,3.
49 Ibidem, N 9a,7.
50 Ibidem, N 9,7.
51 Gilles Deleuze, L’immagine-tempo, Milano, Ubulibri, 1989, p. 51.
52 IdemL’immagine-movimento, Milano, Ubulibri, 1984.

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